La questione delle soft skills ha qualcosa di angoscioso, una specie di vischiosità avvolgente in cui il pensiero fa naufragio, tra senso di fastidio per quella che a tratti sembra una delle tante banalità da cui il mondo della scuola viene frastornato da decenni – e allora la reazione naturale è un’alzata di spalle, in attesa dell’ennesima griglia da compilare – e sotterraneo allarme.
Perché quelle banalità hanno implicazioni e presupposti che forse non si potranno sterilizzare del tutto con l’adozione della strategia difensiva normale per la maggioranza degli insegnanti, ovvero la noncuranza e l’ossequio formale. Non si pretende in alcun modo di proporre qui una critica sistematica, ma semplicemente una serie di perplessità, un tentativo di analisi dell’allarme di cui sopra, materiale grezzo che si osa ritenere almeno in parte legittimato dal fatto di rappresentare un punto di vista dal basso, in questo alternativo – o complementare – rispetto alle formulazioni dei centri studi e delle accademie e alle rielaborazioni dei politici.
Primo paradosso, la pedagogia delle soft skills incorpora in un orizzonte educativo tendenzialmente universalistico uno strumento concepito inizialmente in una prospettiva opposta, quella della selezione.
Non all’insegna dell’inclusione, dunque, ma dell’esclusione. Al di là del fatto che questo capovolgimento dovrebbe forse essere maggiormente approfondito nella sua legittimità teorica e nei suoi effetti, vale la pena di ricordare come proprio l’adozione delle soft skills da parte dei selezionatori del personale (e dunque nell’ambito dell’attribuzione di un valore economico preciso all’uomo inteso come capitale) rappresenti l’argomento più forte a sostegno del loro trasferimento nella scuola, nell’ottica dell’occupabilità. Certamente la questione è grave, e nessuno che si interessi di giovani può restare indifferente davanti alle cifre drammatiche della disoccupazione giovanile; si può però osservare che un criterio adottato per selezionare i più adatti in una vasta platea diverrebbe immediatamente insufficiente qualora, in ipotesi, la scuola avesse lavorato tanto bene da mettere tutti sullo stesso piano sotto questo riguardo.
Questo per dire che, quale che sia l’importanza di certe caratteristiche della personalità in ordine all’efficienza lavorativa, la misura in cui queste potranno produrre concretamente un’occupazione dipenderà sempre, in primo luogo, dalla vigorosità della domanda. Chi ricordi l’Italia degli anni 60 sa bene che ci fu un tempo in cui, stranamente, nonostante una scuola del tutto incurante delle soft skills e una dispersione scolastica elevatissima, elevatissima era anche l’occupabilità. E non, come usa dire, nello stesso lavoro per tutta la vita, un luogo comune la cui validità va ristretta a una categoria nel nostro paese sempre minoritaria, i dipendenti della grande industria; gran parte dei quali, comunque, veniva dall’agricoltura e aveva dovuto adattarsi a cambiamenti non trascurabili.
Riassumendo, l’obiettivo dell’occupabilità, come spinta alla riformulazione del percorso scolastico in termini di soft skills, anche ammettendo che sia legittimo, appare illusorio o pretestuoso.
Un’altra assunzione implicita è quella che vuole che l’elenco di pregi personali compreso nelle soft skills sia per la scuola una novità, o che, quantomeno, essi non vengano valutati. Con ciò si dimentica che il ministero Gelmini riformò il voto di condotta, oggi non più solo sanzionatorio ma anche premiante dei comportamenti ritenuti virtuosi e riconducibili all’area della collaborazione, dell’amicalità, dell’apertura; e il voto di condotta, diversamente dal passato, concorre alla media al pari delle valutazioni nelle discipline (con ciò si è inteso solo descrivere, non approvare). Strano destino è invece quello di altre due big five, coscienziosità e stabilità emotiva. La prima è forse la sola che la scuola tradizionale esplicitamente richiedesse, rinforzandola, premiando, punendo, attraverso la richiesta di precisione e diligenza; ma rappresenta anche uno dei principali bersagli dei novatori da parecchi decenni a questa parte, sicché oggi è assai difficile perseguirla senza esporsi a critiche o vergognarsene; quanto alla seconda, la scuola viene invitata da decenni a non metterla alla prova (qualcuno ricorda Letizia Moratti, le commissioni d’esame tutte interne, gli esami “finalmente senza stress”?); d’altra parte l’attenzione alla “salute emotiva” degli allievi è certamente assai cresciuta, e giustamente, sebbene forse non nella direzione di temprarne la resistenza allo stress. In ogni caso, anche qui per riassumere, nessuna rivoluzione: con qualche lieve oscillazione lessicale, del linguaggio delle soft skills sono pieni milioni di schede di valutazione, di griglie, di documenti di programmazione, di progetti.
D’altronde, Giorgio Vittadini ha utilmente ricordato, di recente, come da un apposito studio risulti una sostanziale sovrapponibilità, all’interno di un campione statistico, tra il grado di possesso delle soft skills e i risultati ottenuti nei test Invalsi: dunque, se così è, le due dimensioni viaggiano già in parallelo nella scuola, e quando si dice che un allievo è bravo si può ragionevolmente ritenere che sia anche passabilmente in possesso delle soft skills… Le quali, secondo le stesse conclusioni dello studio, in quanto proattive anche sul piano delle acquisizioni cognitive, sarebbero già adeguatamente riconosciute dalla valutazione disciplinare.
Ma poi, ancora una volta: dov’è la novità? Dov’è la scoperta? Un’indole serena ed estroversa vive bene l’ambiente collettivo della scuola, ne trae soddisfazione; è a proprio agio, nelle condizioni migliori per imparare, e anni di successi e apprezzamenti ne rinforzano l’autostima e la sicurezza.
In definitiva, lungi dal richiedere il cambiamento della scuola per renderla più congrua con quanto ne sta al di fuori, queste conclusioni sbriciolerebbero un consolidatissimo luogo comune, certificando una sostanziale omogeneità tra l’istituzione scolastica e gli ambienti di lavoro. Organizzazioni collettive entrambe, entrambe richiedenti un alto tasso di capacità di adattamento, disponibilità a stare continuamente in mezzo ad estranei con cui instaurare rapporti proficui e distesi ma funzionali, senza complicazioni affettive; disponibilità ad essere continuamente giudicati e disposizione a non soffrire troppo di quel tanto di alienazione che è inevitabile, ricavando nel contempo gratificazioni sia dalla collaborazione sia dalla competizione, disponibili alla prima ma sempre tenendo d’occhio la seconda…
Ammettiamo per un momento che tutto ciò possa rappresentare la piena realizzazione dell’umano: che fare di coloro che non si adattano? Li si può aiutare, certamente, come già si fa; li si può accompagnare, nella fiducia che, sostenuti da sguardi partecipi e sottoposti per una lunga teoria di anni alle stesse sollecitazioni, sviluppino via via tratti che per natura non avrebbero; forse miglioreranno un poco, forse sarà anche vero che queste disposizioni sono educabili e quindi incrementabili; allo stato attuale, tuttavia, nulla garantisce che le soft skills siano davvero insegnabili. E forse bisognerebbe riflettere sul dato di fatto per cui, a mano a mano che la scuola, anche la scuola superiore, ha indebolito e messo più in ombra il momento cognitivo a favore della condivisione di esperienza, a scapito del peso assegnato al lavoro individuale di studio, il disagio psicologico nelle aule non è diminuito ma dilagato. Se davvero a scuola si dovesse giungere a valutare le soft skills, almeno agli allievi non facciamolo sapere. A quegli allievi che già ora leggono ogni voto o giudizio come una valutazione globale del valore della propria persona, perché forse lo sanno, lo hanno succhiato con il latte materno che le cose vanno così, che non è vero che sapere è utile, è utile essere: essere il tipo vincente.
Eppure qualcosa ancora sfugge, perché chi propone questo modello lo propone non solo in quanto funzionale all’occupabilità ma anche in quanto inclusivo, adatto alla scuola obbligatoria che, in quanto tale, patisce dalla dispersione una contraddizione in termini.
Inoltre, lo abbiamo visto in quest’ultimo difficile anno, fuori della scuola per i ragazzi non c’è il mondo, c’è il vuoto: deserto di relazioni, assenza di possibilità lavorative, insignificanza sociale, labilità e intermittenza perfino dei rapporti familiari. Probabilmente la scolarizzazione stessa ha contribuito a quest’esito. In ogni caso, la realtà ci mette davanti la necessità imperativa dell’inclusività, e insieme quella di una scuola supplente di tutto il resto, quindi totalizzante. L’enfasi posta sugli aspetti formativi è pertanto del tutto comprensibile, per quanto assai rischiosa. Meno logicamente necessaria è invece la progressiva emarginazione di conoscenze e abilità. Certo, queste non sono immediatamente inclusive, hanno invece spinto in passato il carattere selettivo dei percorsi di studio. Ma siamo sicuri che sia inevitabile?
Quello che è certo è che su quel fronte non si investe nulla, si chiede solo di sfoltire e arretrare, mentre le scelte concrete (numero di ore di scuola, numero di allievi per classe, etc.) sono andate nella direzione opposta a quella che sarebbe stata necessaria per soccorrere lentezze evolutive e gap culturali. Chi scrive ritiene i tagli che si sono abbattuti sulle materie umanistiche dolorosi e probabilmente in prospettiva negativi, tuttavia comprensibili nell’attuale temperie culturale; ma le stesse penalizzazioni, e le stesse richieste di arretrare in nome dell’inclusione, riguardano, qui più là meno, anche le famose discipline Stem. E che dire dell’abbandono in cui giacciono le scuole che dovrebbero avere al centro le abilità? Viene il sospetto che sia meno costoso puntare su un modello uguale per tutti, da perseguire con un collage di risorse fungibili e orientato a un generico terziario.
Ma sottolineare troppo le motivazioni economiche sarebbe riduttivo; più al fondo e più in generale, siamo davanti ad un’altra manifestazione di quella sfiducia nella cultura e nella sua trasmissione che così profondamente caratterizza l’oggi delle nostre società; forse, in qualche caso, tale sfiducia è motivata anche dal sospetto, essendo la trasmissione culturale imputata di essere veicolo di condizionamento ideologico (del resto, per quanto rappresenti di tutto ciò una manifestazione assai rozza, la cancel culture non nasce dal nulla), tanto più insidioso in quanto sostenuto da imponenti apparati statali. Mettere in ombra l’aspetto della trasmissione culturale, depotenziarla, dà l’impressione di avere disinnescato una mina, di avere guadagnato libertà. I presupposti psico-economicisti del modello appaiono rassicuranti, in quanto appoggiati al prestigio della scienza e totalmente deideologizzati. È questa probabilmente l’illusione più temibile.
In effetti, come si diceva, il lessico del modello delle soft skills non è nuovo, e in questo senso è amichevole, e piuttosto elastico, nella sua vaghezza. I singoli termini si prestano ad essere risemantizzati all’interno del quadro valoriale dell’interprete, che può quindi guardarli con favore, come conferma prestigiosa della propria idea di educazione. Ma occorre considerare il contesto, l’insieme; e oltre alle presenze, le assenze.
Nel lessico delle soft skills grande peso è attribuito, ad esempio, alla collaborazione: ottima qualità, senza dubbio, che diviene però assai sospetta, così sospesa nel vuoto, soprattutto se non si rinviene da nessuna parte l’altro termine, quello che comprende i tratti della scelta critica: partecipazione; le stesse capacità critiche, d’altronde, sono chiamate in causa sempre e soltanto come presupposto dell’efficacia delle soluzioni, non come autonoma proposizione di problemi. Ancora, possiamo notare come, accanto alla collaborazione e all’amicalità, o gradevolezza, non si trovino mai i tratti della solidarietà. Insieme alla trasmissione culturale, il modello mette decisamente in ombra anche la dimensione che possiamo genericamente definire politica, quell’interesse per l’altro e per il vivere comune che non si esaurisce certo nell’adoperarsi per il buon funzionamento di un progetto, soprattutto in un quadro complessivo che a ciò spinge non sulla base di una libera attribuzione di valore al progetto in sé ma all’opportunità che ne deriva di mostrarsi più brillanti di qualcun altro.
L’individuo diuturnamente impegnato ad essere efficiente e a mostrarsi collaborativo; a far funzionare bene la macchina in cui è inserito perché da essa dipende la sua vita; che per riuscire a rimanervi deve continuamente dimostrare di essere migliore di qualcun altro, qualcun altro con cui deve mantenere buone relazioni anche se teme la coltellata; che deve fare i conti, imparando a gestirlo, con lo stress montante; questo individuo non è la persona del personalismo cristiano. Se qualcuno spera di piegare in questa direzione le parole delle soft skills, fatta piazza pulita di una cultura potenzialmente ideologizzata e dei retaggi democraticisti della scuola post-sessantottina, si illude.
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