Europa e transizione: non tutto oro quel che luccica

Con il pacchetto di misure Fit for 55, l'Ue spinge su un nuovo modello di sviluppo. Occorre però fare attenzione, specialmente in Italia

La Commissione europea ha impresso un’accelerazione al processo di transizione ecologica con la presentazione del pacchetto di proposte “Fit for 55” dello scorso 14 luglio. Il documento in parte aggiorna e in parte completa il Green Deal europeo con cui il Vecchio continente cerca di adeguare il suo modello di sviluppo alle prove che la modernità e le generazioni future impongono di affrontare. 

Sarà necessariamente un percorso di approssimazioni, di scelte concrete e di “mali minori”, alla ricerca di una difficile quadratura del cerchio in cui, speriamo, prevarrà una visione ideale di sintesi. La sfida della sostenibilità, infatti, consiste in una risposta equilibrata a esigenze sociali, ambientali ed economiche che sono spesso in contrasto tra loro. 

Sia il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani che quello dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti hanno avvertito che un’attuazione troppo rapida delle misure europee verso le emissioni zero, con il passaggio a fonti di energia rinnovabili, rischia conseguenze pesantissime per realtà come la motor valley emiliana, le raffinerie o l’industria della plastica, solo per citare alcuni casi.

Il problema però è ancora più profondo e strutturale, e riguarda la caratteristica più importante dell’economia moderna: il valore prodotto è costituito sempre più di beni immateriali che sono creati da un numero relativamente piccolo di persone. E questo apre a scenari di disuguaglianza inquietanti.

Considerando le migliori aziende tecnologiche in base al valore di mercato creato per persona impiegata, si scopre che Facebook realizza 19,7 milioni di dollari per persona impiegata; Amazon ha quasi 800 mila dipendenti a livello globale e la creazione di valore è di 2,2 milioni di dollari per dipendente, con un valore di mercato di 1.760 miliardi di dollari. Se si pensa che per una catena di ristoranti, ad esempio, la cifra è pari a 75.000 dollari, si capisce come il divario tra valore prodotto e numero di persone impiegate a produrlo costituisce una sfida decisiva per i sistemi di governance di tutto il mondo.

Michael Spence, premio Nobel per l’Economia nel 2001 insieme a Joseph E. Stiglitz e George A. Akerlof, ha di recente parlato di questo tema alla Summer School dell’Istituto di studi Economici e per l’Occupazione (Iseo) in un intervento che sarà riportato sul numero di Nuova Atlantide in uscita all’inizio di agosto.

Spence sottolinea che le innovazioni che interessano lo sviluppo mondiale non sono pensati per diffondere reddito e ricchezza e per questo l’impatto sull’occupazione è tutt’altro che scontato. Parla infatti di “polarizzazione del lavoro e del reddito”.

Ci sono per questo soluzioni che l’economista americano suggerisce sia a livello di sistema, sia a livello “micro”.

Sulle prime Spence sostiene che vada messo mano ai sistemi di previdenza sociale, che devono funzionare al meglio perché la distribuzione del reddito e della ricchezza diventerà ancora più importante visto che occorrerà sempre più investire su se stessi. Inoltre, bisognerà anche porre un limite ai livelli di reddito, in modo da non spingere una grande quantità di persone in settori dove c’è un eccesso di offerta e lasciare altri con scarse possibilità di costruire un livello decente di guadagno, o di accumulare ricchezza.

L'”investire su se stessi” si riferisce alla preparazione e alla formazione continua che in questo tempo si richiede. Infatti, contrariamente a quello che si può pensare, proprio l’avvento sempre più diffuso della digitalizzazione e delle macchine intelligenti, anche per far fronte ai problemi ambientali, mette al centro il contributo umano perché l’azione e il pensiero di chi dirige tali strumenti sarà sempre più importante.

Un ennesimo richiamo per quei Paesi come l’Italia in cui il numero dei laureati è la metà di quello dei Paesi più sviluppati, ci sono più di 2 milioni di Neet, 150 mila abbandoni all’anno. E dove, come dimostrano i dati Invalsi di questi giorni, il lockdown e la Dad aumentano enormemente le differenze tra ricchi e poveri ed esiste un grande mismatch perché non si trovano lavoratori preparati per molti dei nuovi lavori che vengono offerti. Senza un miglioramento nell’istruzione personale e collettiva i tanti soldi del Next generation Eu rischiano di non produrre il cambiamento strutturale nell’economia che tutti ci aspettiamo.

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