Draghi, il green e il cuore nero

Resiste nel Paese un cuore nero che immagina di sfangare questa stagione di riforme verdi per lasciare tutto com'è. È un nemico occulto di Draghi

Nel mezzo di una città affossata e cadente, strangolata dal traffico e dalle reti arancioni dei lavori infiniti sempre in corso, con le navi che sbuffano i residui del gasolio attraccate ai moli a qualche metro da antichi castelli, si sono riuniti i ministri del G20 per sancire l’avvio della nuova strategia di sviluppo globale. Togliere di mezzo, almeno in Europa, le auto a combustione interna e virare verso una produzione energetica da fonti non fossili è il risultato raggiunto per ora.

Il tutto per evitare che le alluvioni si portino via città e persone ad ogni stagione senza preavviso. Pare che il Piano strategico sia ampiamente condiviso con la sola eccezione della rinuncia al carbone, eccezione di non poco conto, ma i primi paesi per Pil nel mondo ormai si stanno lanciando verso un nuovo modello che legittimerà la scelta di incentivi governativi e la spinta per tecnologie non inquinanti in tutti i settori.

Un bel piano, anche se monco, che assomiglia molto nei presupposti ai progetti di rinascita che l’Europa per prima ha avanzato con il Next Generation Eu. La scelta green non è più un’opzione da fricchettoni visionari ma una concreta idea di sviluppo figlia di una valida e condivisa strategia da attuare, così come nel Piano nazionale di rinascita i presupposti sul recupero del Mezzogiorno sono ampiamente dichiarati come necessari anche da chi negava l’esistenza di una questione meridionale.

Manca, per entrambe le nuove grandi idee, la fase esecutiva dei progetti che sarà la più difficile da gestire. Se per la rivoluzione green molto dipenderà da incentivi e scelte delle imprese e dei governi, perché gran parte della popolazione mondiale è ampiamente convinta della necessità di cambiare rotta, lo stesso non può dirsi per le politiche di riforma che Draghi propone in settori essenziali del Paese e per il Mezzogiorno.

Resiste nel Paese un cuore nero che immagina già di sfangare questa stagione e restare dove è, mantenendo privilegi e storture con la solita tattica. Mostrarsi prima ampiamente entusiasti del progetto e poi sabotare senza pietà la sua esecuzione. È un passaggio critico l’esecuzione dei piani che Draghi sa di dover affrontare e che soprattutto nel Mezzogiorno rischia di divenire un’ennesima materia di studio delle riforme mancate. Ma Draghi ha individuato un metodo semplice e nuovo per aprire le porte all’esecuzione dei progetti. Un misto di Ethos e Pathos con cui sta di fatto aggredendo in maniera diretta i suoi antagonisti.

Da un lato ha imposto, infatti, una severa disciplina alla produzione normativa ed allo stile di Governo: le decisone sono prese e scritte con nitidezza, mediando prima ma non lasciando spazio alle imboscate poi ed ha aggiunto un’emotiva e asciutta comunicazione fatta di messaggi diretti che non strizzano l’occhio a nessuno. Non ha elettori da convincere o sondaggi da temere e la sua autorevolezza non si basa sul numero di selfie o sugli spin comunicativi sui social. Insomma dice quella che va fatto e lo fa.

Questo stile non enfatizza i mali per renderli più urgenti ma semplicemente prende atto di una dato e lo presenta per quello che è. Le soluzioni proposte sono consequenziali e spesso dure da digerire. Lo sta facendo con la giustizia e si appresta a farlo sul fisco preparando la battaglia per spendere presto e bene i soldi in opere pubbliche e progetti per il Mezzogiorno. Come ha più volte spiegato il male del Paese, la sofferenza maggiore, nasce lì e ha davanti due strade. Chi può va via e abbandona quei territori. Chi non può, o non vuole, deve accettare un compromesso al ribasso della qualità della vita subendo una compressione dei propri diritti, che per una parte è frutto dalle minori risorse erogate e per altra parte della tradizione di servizi scadenti che la Pa eroga.

Ma il cambiamento che Draghi propone è soprattuto il cambiamento di chi è chiamato ad affrontare questa fase. Come ai magistrati chiede di accogliere la riforma in nome di una necessità di cambiare un intollerabile andazzo, al cuore nero del Paese chiede di vedere nel Mezzogiorno una risorsa e non un problema da sfruttare. E lo chiede soprattuto a chi il Mezzogiorno lo gestisce e lo vive. Pretendere efficienza nelle decisioni e immaginare un modello di sviluppo che abbandoni le pratiche meramente assistenzialiste non significa rinnegare l’impegno a spendere di più in quelle aree; anzi, con il Piano si vuole spendere per ottenere una crescita del Pil e del capitale umano tale da sostenere il debito che stiamo facendo per uscire da questa crisi.

La questione meridionale fa ancora storcere la bocca, a differenza delle tematiche ambientali che godono ora di un pieno appoggio di cittadini e imprese, ormai sempre più convinti della necessità di andare verso una direzione che ora sembra del tutto logica, ma appena qualche anno fa era considerata un’illusione.

Non vi è un vero e popolare consenso, in sostanza, a politiche di sviluppo reali del Mezzogiorno, sia da parte di chi ritiene più utile spendere quelle risorse nelle aree più avanzate del Nord, così come non vi è una reale intenzione in larga parte della società meridionale di abbandonare l’assistenzialismo diffuso. Si crea così un grumo scuro di interessi apparentemente divergenti che portano però alla medesima soluzione. Applaudire in pubblico e sabotare nell’oscurità. Sconfiggere questo cuore nero sarà la vera sfida, che sembra ad oggi complessa, come vent’anni fa sembrava difficile rendere elettriche tutte le auto europee. Ma i tempi stanno cambiando.

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