Il rimbalzo dell’economia è una conseguenza “naturale” delle riaperture dei flussi dopo i blocchi anti-pandemici: nel biennio 2021-22 il Pil italiano crescerà attorno al 10% grazie a questo effetto, corroborato da un fortissimo sostegno di spesa pubblica a debito, se l’emergenza medica resterà contenuta, com’è probabile. Ma dal 2023 ci sarà il problema di consolidare la ripresa, considerando che l’Italia ha sofferto un decennio segnato da recessioni gravi che ne hanno impoverito la popolazione e colpito il sistema industriale.
Inoltre, la tendenza stagnante si è manifestata in Italia fin dai primi anni ’90, semplificando, a causa dei pesi fiscali imposti dalla convergenza verso l’euro. Pertanto la missione di consolidamento è molto più ampia di quanto percepito: deve riportare su una tendenza di ricchezza almeno il 40% degli italiani.
Per riuscirci saranno necessari un modello nazionale fiscale più leggero, più facilitazioni alla competitività del sistema industriale e dei servizi e una riqualificazione del sistema educativo, il tutto entro una logica di produttività della spesa pubblica che implica meno assistenzialismo. Ciò è tecnicamente possibile, ma che l’Italia torni in stagnazione o vada in boom dipenderà da chi vincerà le elezioni del 2023 e dalla politica monetaria europea.
L’opzione boom ha bisogno che la Bce difenda l’enorme debito italiano sia acquistandone una parte, sia tenendo minimi i tassi per un tempo non breve. La scorsa settimana ha preso una posizione espansiva, di valore storico in relazione al suo passato, e ciò fa ben sperare. Ma il suo direttivo lo ha fatto con il voto contrario della Germania in un clima che fa prevedere un conflitto tra rigoristi ed espansionisti. Partita aperta.
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