Colpo su colpo il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e il presidente del Consiglio, Mario Draghi, hanno chiarito che il semestre bianco non sarà un periodo di ricreazione per manovre su Palazzo Chigi. Prima il Capo dello Stato attraverso il quirinalista del Corriere della Sera, Marzio Breda, ha notificato che nel caso in cui una componente del governo – vedi il M5s sulla giustizia – si dissociasse non ci sarà alcuna crisi di governo, ma si procederà alla sostituzione dei ministri dimissionari con un rimpasto. Subito dopo il Capo del Governo ha annunciato che sul testo di riforma predisposto dalla ministra Cartabia porrà il voto di fiducia.
Perché si è arrivato a questo? È ormai evidente che il principale antagonista di Draghi non è Giorgia Meloni, ma Giuseppe Conte che sarà eletto leader del M5s allo scattare del semestre bianco. A ciò si aggiunge il fatto che il segretario del Pd, Enrico Letta, ha stabilito una sorta di “patto di unità d’azione” con il M5s di Conte: insieme votano in commissione parlamentare contro i progetti del ministro Cingolani e da un lato Conte sostiene Letta sulla immodificabilità del ddl Zan, mentre Letta sostiene Conte sulla modificabilità del testo Cartabia, arrivando a ipotizzare mutamenti non solo alla Camera, ma persino al Senato (anche se, di fronte all’accusa di schierare il Pd a favore dell’ostruzionismo grillino, ha poi dovuto precisare che sosterrà emendamenti solo a Montecitorio).
Certamente c’è stata un’evoluzione in Letta. Quando è stato eletto segretario del Pd ci si attendeva l’avvento di una personalità che avrebbe contribuito a stabilizzare il quadro politico svolgendo un ruolo di federatore, di mediazione unitaria. Al contrario Letta ha voluto caratterizzarsi come “uomo di rottura” sia nella maggioranza di governo sia nel suo stesso partito.
Il nuovo segretario del Pd è poi andato saldando con Conte, al pari e se non più di Zingaretti, una unità di intenti che non è semplicemente nata dal fatto che entrambi sono ex premier che si ritengono ingiustamente silurati da Matteo Renzi (per Conte il risentimento si allarga a Mattarella), ma per comuni ragioni politiche: entrambi sono “papi stranieri” – Conte non era nemmeno iscritto al M5s e Letta era “esule” a Parigi – che vogliono prendere il potere nel proprio partito e rinegoziare con Draghi l’appoggio al governo. Conte soffre lo smantellamento del suo sistema di potere dai servizi segreti alla Cassa depositi e prestiti e ora in Rai; Letta preferirebbe rivedere la delegazione al governo con l’argomento della mancanza di una presenza femminile. Entrambi hanno poi bisogno l’uno dell’altro per entrare in Parlamento attraverso elezioni suppletive prima dell’elezione presidenziale (Letta a Siena dove è incerto l’appoggio di Renzi e Conte a Roma nel collegio che Gualtieri lascerà libero dopo la probabile elezione a sindaco). Letta in sostanza vede Draghi come una parentesi mentre con Conte vede un avvenire vincente.
Ma Mattarella e Draghi hanno sbarrato la strada alla rinegoziazione ed hanno chiarito che l’uscita dal governo è un biglietto di andata senza ritorno. È significativa la “gaffe” della ministra Dadone, che ha parlato di ritiro dei ministri del M5s perché era ancora ferma all’ipotesi della crisi-rinegoziazione e che poi poche ore dopo – informata del biglietto di andata senza ritorno – è rientrata nei ranghi.
Oltre al vano agitarsi sull’ipotesi di costringere Mattarella e Draghi a rinegoziare un nuovo governo emerge la futilità delle grandi manovre – non solo di Letta e Conte – per le prossime elezioni presidenziali.
È evidente che in questo Parlamento – con oltre 250 cambi di casacca, con partiti come FI e Iv che a nuove elezioni saranno ridimensionati, e nuovi leader come Letta e Conte che puntano a un radicale rinnovo dei propri gruppi di Camera e Senato nel quadro, in aggiunta, del taglio dei parlamentari – oltre l’80 per cento non sarà rieletto. Ipotizzare “grandi manovre” e cioè un’operazione politica per eleggere un presidente della Repubblica spaccando in modo traumatico la maggioranza di governo significa andare incontro a un immediato scioglimento delle Camere che è la prospettiva più temuta dalla stragrande platea degli elettori presidenziali.
In un’assemblea parlamentare così ingovernabile e imprevedibile nel voto segreto l’unica via d’uscita sarà verosimilmente quella di chiedere a Sergio Mattarella la rielezione-proroga come è accaduto per Giorgio Napolitano. Il protocollo eccezionale con cui Macron ha ricevuto il nostro presidente della Repubblica non è sembrato riservato a una personalità in procinto di uscire di scena. Cristallizzare quindi un asse Pd-M5s prefigurando nuovi inquilini al Quirinale e a Palazzo Chigi forse non rispecchia le priorità di cui in questo momento il Paese sente il bisogno.
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