In un modo o nell’altro, tutte le ragazze finivano tra le braccia di Graham Nash. Prima Joni Mitchell, che era fidanzata di David Crosby, poi Rita Coolidge, la compagna di Stephen Stills. Sebbene le loro relazioni con “l’inglese”, come lo chiamavano i suoi compagni di CSNY, finissero anch’esse molto presto, ce ne era abbastanza per aggiungere dissapori a dissapori che portarono alla fine del glorioso e primo super gruppo della storia, Crosby, Stills, Nash and Young, forti del successo mondiale del disco capolavoro Deja vu.
Stills fu quello che di tutti e quattro prese peggio la fine della sua storia d’amore e la fine del supergruppo, facendo abbondante uso di pillole per sostenersi e di alcol. Allo stesso tempo, il musicista texano nel periodo che va dal 1969 al 1973 fu quello che visse una autentica esplosione compositiva senza paragoni. Forse proprio il dolore che provava contribuì a questo, ma dei quattro Stills era sicuramente il musicista più autentico, il più dotato tecnicamente e, in quel periodo, l’autore delle canzoni migliori.
Il primo disco come trio, CSN uscito nel 1969, così come Deja vu, furono opera quasi completa del suo genio. Non solo vi suonò quasi tutti gli strumenti, eccetto basso e batteria in Deja vu, ma fu lui che mentre i tre “pard” si dedicavano a crociere in yacht, alla droga, alle donne, ai propri dischi solisti (Neil Young è praticamente assente da Deja vu, i suoi brani furono incisi altrove con altri musicisti a parte le voci) stava in studio anche 24 ore consecutive a ritoccare ogni dettaglio, a fare e rifare ogni parte, a combinare tutto insieme in maniera magistrale. Nel cofanetto celebrativo per i 50 anni di Deja vu da poco uscito, questo appare ben chiaro: mentre di Young c’è solo un demo e degli altri pochi di più, c’è praticamente un intero disco tutto di brani di Stills lasciati fuori.
Per sfuggire alla depressione incipiente, il boss della Atlantic gli consigliò di lasciare la California e andare a vivere in Inghilterra, dove comprerà per centomila sterline una villa con tenuta appartenuta a Ringo Starr e prima all’attore Peter Sellers. Mentre Deja vu deve ancora uscire (sarà pubblicato nel marzo 1970) Stills è già in studio a Londra a incidere nuove canzoni. Andrà avanti fino a luglio, dopo essere stato in tour con CSNY, concludendo i lavori a Los Angeles. Ha accumulato una tale quantità di materiale che vuole fare uscire un doppio album, ma Ahmet Ertegun, il boss dell’Atlantic, gli dice di no. A quei tempi i doppi vinili registrati in studio erano merce rara che si potevano permettere solo le superstar come Dylan (il primo doppio in studio della storia, Blonde on blonde) o i Beatles (il White album). Gli altri potevano al massimo, ma anche qui in rare occasioni, pubblicare dei doppi dal vivo. Erano considerati troppo costosi e c’era paura che il pubblico di ragazzi che allora costituiva il pubblico di acquirenti rock, non potesse permettersi di comprarli.
Il 16 novembre 1970 esce così un disco semplicemente intitolato “Stephen Stills”, con una splendida foto in copertina del nostro che è seduto su un tronco in mezzo alla neve dell’amata Aspen nel Colorado mentre imbraccia una chitarra acustica con a fianco una giraffa pupazzo. Il contenuto è mostruoso nella sua grandezza. Stills è in totale stato di grazia tanto da permettersi di ospitare colleghi come Eric Clapton, Booker T Washington, Jimi Hendrix, Ringo Starr, Cass Elliott, John Sebastian, Crosby, Nash e Rita Coolidge. Il disco è l’unico nella storia che vede nel stesso lp Clapton e Hendrix, i due chitarristi più famosi della storia. Hendrix sarebbe morto due mesi prima che il disco venisse pubblicato, ed è a lui dedicato. Hendrix e Stills svilupparono una forte amicizia, tanto che il chitarrista di Seattle voleva chiedergli di unirsi all’Experience come bassista. Oltre che a Londra, Hendrix fu spesso ospite a casa di Stills a Malibu. Una volta si trovarono a suonare per cinque giorni consecutivi fino a che la polizia, chiamata dai vicini, si presentò a casa. Quando lo sceriffo vide chi erano, chiese il permesso di parcheggiare davanti casa per poterli ascoltare…
Il disco si apre con un classico del cantautore, Love the one you’re with, proverbio tipico di quell’epoca storica di amore libero, rubato a una frase che Billy Preston era solito ripetere: “se non puoi stare con la persona che ami, ama quella con cui stai”. Nota soprattutto per aver aperto in versione acustica anche Four way street il live di CSNY uscito l’anno dopo, è una esplosione corale di gioiosa voglia di vivere, con un coro quasi gospel e un solo di Hammond trascinante. La successiva Do fo the others è una delle sue classiche stupende ballate acustiche, con il suo tocco di fingerpicking indelebile e le consuete aperture corali, un pezzo che regala pace e armonia.
Ma già Church (Pt. of someone) mostra la capacità di Stills di affrontare ambientazioni musicali diverse, una capacità di esplorare diverse forme musicali mancanti ai tre ex compagni. Brano pianistico dall’impianto gospel, gode di uno straordinario coro degno di una celebrazione evangelica nel sud degli States dove Stills improvvisa con una voce che sa di negritudine ineffabile. Una meraviglia. Il discreto accompagnamento d’archi aggiunge ancora più carica all’atmosfera generale.
Old times good time è un rock blues torrido cantato benissimo, un brano autobiografico in cui Stills racconta di sé, della sua adolescenza, del suo amore per la chitarra, l’arrivo a New York ventenne in cerca di gloria e poi il trasferimento in California e dove appare Jimi Hendrix. Anche qui Booker T. spadroneggia con il suo inconfondibile Hammond.
Go back home è un blues al fulmicotone dove compare Eric Clapton, uno dei due pezzi registrati insieme; l’altro, Fish and scorpions, apparirà sul successivo disco di Stills. Benché in quel periodo Clapton fosse tossicodipendente tira fuori un assolo devastante tra i suoi migliori di sempre.
Difficile dire se Stills sia più bravo all’elettrica o all’acustica. Diremmo entrambe. Black queen è un blues acustico suonato con un vigore esplosivo, un brano che stende per la sua perfezione tecnica e allo stesso tempo la carica emotiva.
In Cherokee appaiono quei fati che poi saranno più evidenti nel disco successivo, segno di come i due album avrebbero davvero potuto essere un doppio. Colpito e innamorato dai Chicago, gruppo jazz rock caratterizzato da una sezione fiati esaltante, Stills cerca qui di recuperare quell’ambientazione. Il disco si chiude con la lunga e fascinosa We are not helpless, che molti considerarono una risposta alla Helpless dell’amico Young, ma non è così. Ancora in chiave gospel è un inno che riflette sul periodo storico dell’America, sulle domande aperte negli anni 60 che non sembrano trovare risposta: “Sì, i bambini d’America stanno facendo a tutti domande su com’è, sì, i bambini d’America stanno rendendo difficile guardarli negli occhi che cosa è?”.
Registrato tra febbraio e maggio 1971 e pubblicato il 30 giugno, quasi immediatamente “Stephen Stills 2” viaggia allo stesso livello del precedente lavoro, con un maggior uso dei fiati, i leggendari Miami Horns. Se Singin’ call era un demo per una possibile pubblicazione su Deja vu, Word game è un tour de force acustico in cui Stills si ispira chiaramente al diluvio di parole di It’s alright ma (I’m only bleeding) di Bob Dylan, ispirato da un documentario sull’apartheid, mostrando la sua anima politicamente di sinistra. Anche Relaxing town ha forti riferimenti politici citando i leader delle manifestazioni di Chicago del 68, tra cui Jerry Rubin, anche se qui l’artista sembra voler prendere le distanze dal clima incendiario e rivoluzionario dell’epoca. Fishes and scorpions vede ancora Clapton alla chitarra anche se siamo davanti a un brano deliziosamente e vagamente psichedelico piuttosto che blues, ma anche qui Clapton è straordinario, mentre Marianne è un piacevole brano quasi pop. Know you got tu run è Stills acustico ai suoi massimi livelli: con un dobro e una chitarra acustica che si alternano, si intrecciano, e la voce che suona come l’urlo di un coyote disperato nel deserto, è magia purissima. Su tutte ovviamente il brano di apertura, la bellissima e corale Change partners che qualcuno vide come una dedica polemica agli ex amici di CSN, mentre la lettura più realista sembra quella delle relazioni amorose destinate a concludersi e a un cambiamento continuo, tipico del periodo storico. Alla pedal steel Jerry Garcia dei Grateful Dead dà un tocco di poetica psichedelia.
Il periodo di debordante creatività di Stephen Stills non è ancora finito. Confluirà un anno dopo nello straordinario super gruppo Manassas con un doppio album (finalmente). Poi, purtroppo, l’alcol prenderà per molti anni il sopravvento nella sua vita e Stills non ripeterà mai più i vertici di questo periodo. Che resterà però per sempre uno dei momenti più alti della “golden age” del rock’n’roll.
In soli due anni i quattro produssero il meglio della loro carriera, oltre naturalmente a Deja vu: David Crosby con l’immenso If I Could Only Remember My Name, Neil Young con l’intenso e intimista After The Gold Rush, e Graham Nash con il sognante e delicato Songs For Beginners. Quattro strade diverse, ma indimenticabili a cui tornare continuamente. Non ci si stancherà mai.
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