A voler realizzare un affresco delle Olimpiadi di Tokyo, come facevano i maestri e i pittori che ci hanno raccontato la storia sintetizzando con un’immagine intere epoche ed avvenimenti straordinari, molti sceglierebbero di rappresentare il momento in cui Barshim propone a Tamberi di condividere l’oro e Gimbo, incredulo, raccoglie l’offerta senza un istante di esitazione e suggella il patto avvinghiandosi al qatariota.
Le “convulsioni” – così le ha definite lo stesso Tamberi – di esultanza le abbiamo ancora negli occhi.
Di questa condivisione dell’oro, la prima nella storia delle gare olimpiche, è già stato detto molto e moltissimo continuerà ad essere approfondito, come giustamente merita tale gesto inedito e stra-ordinario, fuori dall’ordinario appunto, ma non per questo impossibile.
“Ma cosa è venuto in mente a questi signori?”, ci si potrebbe domandare e non pochi infatti se lo stanno continuando a chiedere, tanto è parso inconcepibile e strano quel che è accaduto.
Paradossalmente è proprio in questa domanda, alimentata da un interrogativo interdetto, che si rintraccia la risposta: “A loro è venuto in mente quello che mai era venuto in mente ad altri”.
Ebbene sì, a Barshim e Tamberi è venuto in mente! Cosa? Non di condividere l’oro – espressione che nel suo riferimento alla divisione suggerisce sempre l’idea di un dimezzamento – ma di moltiplicarlo.
Agli applausi per i 2,37 metri superati da questi atleti – i cui record personali, ricordiamolo, sono di 2,43 per Barshim e 2,39 per Tamberi – si aggiunge dunque la standing ovation di chi sa riconoscere nella loro scelta un avanzamento di civiltà, l’introduzione di un modo inedito di pensare la vittoria, a due posti.
È sin dall’infanzia che ascoltiamo storie in cui la matrigna vuole essere la più bella del reame e non occorre arrivare al liceo per imparare che “homo homini lupus” o che il primo posto è l’unico a contare, cosicché le prediche pedagogiche – sempre e comunque notoriamente fallimentari – di chi invita a valorizzare la partecipazione e non la vittoria, cadono in un terreno inaridito, già nei primi anni di vita, dal “virus del numero 1”, più letale di altri.
Così, benché “il primo” sia sinonimo di solo, lì sul podio della vita o di un campo sportivo, con gli altri ai propri piedi, il numero 1 continua ad esercitare un fascino irresistibile, attrattiva fallica che, in una contorsione asfissiante, è il soggetto stesso a produrre ed alimentare – sostenuto dalla cultura del primato –, almeno fino a che non gli venga in mente di concedere spazio ad un diverso ordine di pensieri, che poi è proprio quello che accade attraverso un’analisi, grazie alla quale può accadere che tornino o ricomincino ad essere pensabili, con vantaggio, pensieri che prima dovevano essere rimossi, a partire dal successo della partnership.
Ai nostri campioni olimpici di salto in alto è venuto in mente che salire insieme sul podio non avrebbe tolto nulla a nessuno dei due, al contrario avrebbe aggiunto all’oro, alla soddisfazione per il proprio risultato, quella impagabile del successo ottenuto con e per mezzo di un altro. Hanno personalmente guadagnato e nel contempo si sono reciprocamente offerti la vittoria, divertendosi in modo visibile e facendoci venir voglia di essere lì, con loro.
In questo episodio che fa storia non solo sportiva, ma anche civile e di salute psichica, la meta – per usare una parola cara a Freud – risulta raggiunta da ciascuno dei due atleti mediante il proprio lavoro, supplementato dal lavoro dell’altro, con soddisfazione universale, anche la nostra appunto.
A non aver timore di spingere le parole ancora un po’ più avanti possiamo dire di aver assistito, in pubblica piazza, ad una documentazione di cosa sia la salute psichica. Se infatti nella nevrosi il soggetto si trova alle prese con il dilemma dell’inconciliabilità della propria soddisfazione con quella dell’altro e nella perversione ne viene invece esclusa categoricamente l’esperibilità, nella salute psichica essa è pensata come ricevibile per mezzo dell’altro, con vantaggio reciproco.
Per evitare il rischio di troppo facili entusiasmi, va sottolineato che quanto si è consumato su quel campo di atletica non è stato l’esito di un colpo di fulmine o di genio, né un atto di opportunismo, ma piuttosto l’epilogo di una storia lunga, la cui ricostruzione meriterebbe tempi più articolati – entrambi figli di atleti, entrambi con infortuni importanti alle spalle, ecc. –, una storia non breve dunque che ha certamente uno dei suoi snodi nel momento in cui nel 2017, dopo una gara deludente di Tamberi, Barshim bussa alla sua camera e vinte le resistenze di un Gimbo demoralizzato e preoccupato di non poter tornare ai livelli raggiunti prima dell’infortunio del 2016, lo esorta a non mollare. In quella scelta di Barshim di invitare l’avversario a rimettersi in piedi – “merce” rara sulla scena del mondo – e nella disposizione, non orgogliosa, di Tamberi ad afferrare l’offerta, si rintraccia l’anticipo, la radice della moltiplicazione dell’oro del 1° agosto 2021.
Da ultimo, ma non meno rilevante in questa vicenda, massimo apprezzamento per il regolamento olimpico che, come abbiamo imparato, in alcune specialità offre agli atleti, in condizioni di parità, l’onere e l’onore di farsi insieme giudici dell’esito della competizione, compiendo così con la loro competenza di intendere e volere il giudizio sulla gara. Tutt’altra storia quindi rispetto all’ipotizzato buco normativo, ma piuttosto l’evidenza di un diritto che si lascia perfezionare dai soggetti coinvolti, con pace per tutti.
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