Romelu Lukaku trascorre nel Principato di Monaco gli ultimi spiccioli di vacanza prima di rispondere alla chiamata del Chelsea di Roman Abramovich. L’Inter, con i suoi non lievi problemi, è ormai acqua passata: il sogno pallonaro dei milionari cinesi è stato travolto dalla stretta del Partito nei confronti dei ricchi, vecchi e nuovi. Così come cosa passata sono le lacrime di Lionel Messi al Camp Nou al momento di salutare i Blaugrana del Barcelona che, si sa, sono “mas que un club”, temprato negli anni della guerra civile e dell’ostilità manifesta al regime franchista. Parigi lo ha accolto con scene degne di un re.
E fioccano i buoni affari. Altro che vendita di magliette… Ormai i conti si regolano con i Token, le criptovalute emesse sulle blockchain, preziose icone per tifosi e collezionisti, oggetto di scambi e di fluttuazione finanziarie da capogiro. E così Messi ha accettato (o forse suggerito) di essere in parte pagato con i preziosi token (le moderne figurine) che lo ritraggono entro i recinti della blockchain del Paris Saint Germain. Secondo Reuters i token rappresentano una parte rilevante del “pacchetto di benvenuto” del club al giocatore (25-30 milioni di euro). Un ottimo affare, visto che gli acquisti delle nuove figurine virtuali (che permettono alcuni diritti secondari ai tifosi, vedi la prenotazione di gadget o la scelta dell’inno) hanno già reso al nuovo club incassi di alcune decine di milioni.
Certo, dal climate change alla lotta contro la pandemia più contagiosa della storia, non mancano di sicuro i problemi a livello globale. Ma, come ci ha insegnato l’estate più gloriosa nella storia dello sport azzurro, non è certo tempo sprecato quello dedicato a riflettere sulle sorti del soccer, ormai sconvolto da rivolte, vedi la Superlega durata meno di un’insurrezione mazziniana dell’Ottocento, e conflitti vecchi e nuovi tra ricchi e poveri. Difficile immaginare una situazione più complicata.
In Spagna Real Madrid e Barcelona fronteggiano la rivolta della Liga che, per 2,7 miliardi di euro, ha ceduto una quota di diritti commerciali (anche tv) del campionato. E lo scontro ha già provocato una vittima illustre: il Barcelona, per rispettare le nuove regole sugli ingaggi che non possono superare il 70% del fatturato, ha dovuto rinunciare a Messi.
Un risultato paradossale perché il Psg degli sceicchi del Qatar, grandi beneficiari del boom del prezzo del gas, non hanno mai rispettato il fair play finanziario. E l’Uefa, a fronte di un anno tragico per il sistema, tra stadi vuoti e frenata degli sponsor, ha subito concesso una deroga ai pochissimi club, sceicchi del golfo o boiardi della Russia di Putin, che possono permettersi spese folli.
Il risultato è che l’anno prossimo le competizioni più prestigiose, a partire dalla Champions League, rischiano di essere un affare di famiglia tra Psg e Manchester City. Il tutto nell’attesa del Mondiale in Qatar che si giocherà nell’inverno del 2022 a Doha sconvolgendo il calendario europeo e sudamericano per una scelta “dopata” dalle mazzette elargite a suo tempo ai vertici del calcio mondiale che, tra l’altro, hanno compromesso la carriera dirigenziale di Michel Platini.
Insomma, anche a prescindere dai problemi del calcio italiano, che non solo non naviga nell’oro ma non riesce e costruire impianti all’altezza della situazione nelle città-chiave, la diagnosi è chiara: il calcio non riesce a darsi regole condivise e tantomeno a rispettarle. Di qui il fallimento del salary cap o quanto meno delle regole che hanno garantito il successo degli sport di squadra Usa: franchigie nelle mani delle leghe (che hanno tutto l’interesse a promuovere società sane), la facoltà concessa alle squadre più deboli di aver la prima scelta al momento dell’ingaggio per la nuova stagione, e altre misure ispirate al principio che l’organizzazione è un bene di tutti, da difendere a ogni costo e da valorizzare a fronte dei media e delle altre lobbies, politica in testa. Ma non solo. Se non s’inverte la rotta, il calcio europeo finirà nelle mani degli intermediari, gli unici protagonisti ricchi della situazione, avviati a controllare i club ma anche mezzi di informazione assai più poveri di un tempo.
In assenza di una svolta, insomma, si rischia una fine ingloriosa. E sarà davvero un brutto giorno per l’Europa non solo sportiva. Ci vorrebbe un Recovery plan anche per il calcio, ma non si vede un Mario Draghi nello spogliatoio.
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