Quando i grillini erano di lotta più che di governo, dicevano che il Monte dei Paschi di Siena era il “bancomat” del Pd. E tanto per non smentirsi dicevano una corbelleria. La banca di Siena, la più antica al mondo e sicuramente in Italia, era stata qualcosa in più e in meno di un bancomat.
In più, perché se fossero vere la metà delle indiscrezioni circolate attorno alle due grandi acquisizioni che hanno messo a terra il Monte – la piccola Banca del Salento per 2.500 miliardi di vecchie lire e poi l’Antonveneta per 9 miliardi di euro – altro che Bancomat: saremmo di fronte alla più grande ruberia politica del millennio; ma dirlo, o peggio scriverlo non per assurdo ma con suggestiva condivisione dell’ipotesi, è un po’ come imitare i piddini quando dicono che Salvini deve restituire i 49 milioni evaporati durante l’ultima gestione Bossi (a proposito, quell’inchiesta sta per essere archiviata senza nulla di fatto).
In realtà, chiunque abbia assistito a un palio di Siena sa che i senesi, prima di essere comunisti, fascisti, fruttariani, filatelici o ayurvedici sono senesi. Pervicacemente, radicatamente senesi. Che non è un insulto, sia ben chiaro: lo dimostrano le tante cose buone e belle fatte dai senesi nella storia ed anche oggi. Però comandano loro, scelgono loro, non si fanno gestire da un politico qualsiasi che candidandosi a Siena presume per questo di essere entrato nelle loro segrete cose.
In questo senso, la lunga stagione di Giuseppe Mussari, che determinò entrambe quelle acquisizioni (la prima con Mussari a capo della totipotente fondazione, la seconda a capo della banca) è stata atipica perché Mussari era un senese atipico: anzi, non è senese affatto, ma calabrese di Catanzaro.
Che Mussari abbia flirtato con la politica è notorio, e certamente era la politica della sinistra di governo che consonava con la sua visione. Ma non dimentichiamoci che l’allora presidente del Monte godeva di tali unanimi consensi nel paese da essere stato insediato a presidente dei banchieri italiani (Abo) a furor di popolo, e con la spinta determinante di Giovanni Bazoli: per dire un democristiano di sinistra che col Pd ha sempre condiviso progetti ma restando cosa a sé.
E allora? Allora il delitto c’è stato sul Monte – e peraltro almeno un delitto vero, quello di David Rossi, è stato senza dubbio commesso (basta rivedere su Youtube il raccapricciante video della caduta del corpo dal secondo piano di Rocca Salimbeni per constatarlo) e scandalosamente l’inchiesta si è insabbiata – ma il delitto finanziario è stato figlio legittimo di una malintesa senesità, sostenuta e fruita da pezzi della sinistra italiana, non diretta, non ne sarebbe stata capace; tanto che quando più direttamente ci provò, con la fallita scalata della Bnl da parte dell’Unipol di Giovanni Consorte (la storiaccia dell’“abbiamo una banca” declamato da Fassino al telefono) fallì miseramente.
Quindi complicità e approfittamenti, sì. Ma regia, quale? Una regia tafazziana. Che però oggi dovrebbe – anzi: avrebbe dovuto – cessare con precipitoso imbarazzo. Chiunque sia stato politicamente sfiorato dal Pd, o lo abbia sfiorato, dovrebbe vedere il Montepaschi come il diavolo vede l’acqua santa. Dovrebbe cambiare marciapiedi quando passa davanti a una filiale di quel che resta della banca. E invece – primo errore – mettono l’ex ministro Padoan a fare da presidente a Unicredit, cioè l’unica banca italiana candidata naturale a prendersi la parte salvabile del Monte: vabbé che Padoan è stato tiepido in tutto, anche politicamente, ma comunque è un economista organico del Pd. E poi adesso Enrico Letta che si candida a Siena: cose da pazzi. Innanzitutto, è nato a Pisa: e si sa che l’effetto campanile non è un “pressappoco”. Se sei senese è un conto, se sei toscano un altro. Ma poi non esiste che una “company-town”, cioè una città pervasa da un’azienda, com’è appunto Siena con il Monte, esprima un deputato dell’importanza che ha il segretario del Pd (parlandone in senso generico, qualunque segretario…) nel momento in cui il governo deve decidere del futuro di quell’azienda. Se una cosa del genere l’avesse fatta Berlusconi, sarebbe scoppiata la guerra mondiale contro il “conflitto d’interessi”.
Restano i fatti. E i fatti sono poveri, e tristi.
Oggi nemmeno Fassino, che pure di banche ha sempre capito ben poco, si compiacerebbe più di “avere una banca”. Il potere finanziario vero gira alla larga dagli sportelli, soprattutto quelli decotti di un istituto che ha inghiottito troppi liquami per potersi riprendere, con le nuove normative internazionali, ipercorrettive degli eccessi di esposizione creditizia, tipici delle banche italiane e (meno) francesi e spagnole e indifferenti alle esposizioni in derivati tipiche delle banche tedesche e anglosassoni.
Oggi prendere il Monte è un sostanziale bidone. Spiace dirlo, ci lavora anche gente brava, ma salvargli il posto è più una questione di welfare che di business. È un po’ come Ita: ci abbiamo smenato 10 miliardi, su Alitalia, e ora è finita come doveva: con un sostanziale dimezzamento dell’azienda. Gli errori si pagano.
Perché Unicredit compra Mps? Perché qualcosa deve comprare. L’alternativa sarebbe stata dare Mps al blocco Unipol-Bper-PopSondrio. Ma quelli di Unipol non ci ricadono, e soprattutto non ci tengono proprio a pelarsi quella gatta. Dunque toccherà a Unicredit, solo se lo Stato aiuterà, tanto ma tanto.
Ed è chiaro che dal giorno 1 della futura nuova gestione sarebbe giusto che le autorità filtrassero in controluce ogni più piccola scelta del nuovo assetto dell’istituto alla ricerca di contaminazioni piddine. Ma chi dovrebbe mai farlo? La Banca d’Italia, che lasciò strapagare Antonveneta? La Consob, che ha sempre meno poteri, e comunque non ne ha certo sulla gestione delle banche? Che Unicredit sia lieve a quel che resta di un Monte distrutto dai senesi con sciacallaggi politici vari ma di prevalente gravitazione piddina a contorno.
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