Durante la sua corsa alla presidenza, Joe Biden affermò che avrebbe riportato “gli Stati Uniti alla guida del mondo”, perché “tocca agli Stati Uniti fare da guida. Nessuna altra nazione ha questa capacità”. Aggiungendo: “Come nazione, dobbiamo provare al mondo che gli Stati Uniti sono preparati a prendere di nuovo la guida, non solo con l’esempio del nostro potere ma anche con il potere del nostro esempio”. Affermazioni messe decisamente in discussione dalla ritirata precipitosa dall’Afghanistan.
In un suo recente articolo sul Sussidiario, Leonardo Tirabassi elenca le conseguenze del ritiro della Nato dall’Afghanistan e di vent’anni di guerra inutile, con spreco di vite umane e con pesanti costi economici. Tirabassi solleva un problema grave, cioè la sorte che toccherà agli afgani che hanno cooperato con la Nato e agli oppositori del regime talebano. Per non parlare dei 2,7 milioni di rifugiati e del probabile pesante aumento di emigrazione verso l’Europa. Nelle recenti dichiarazioni di Biden sembra però esservi solo la fasulla affermazione che il ritiro delle truppe è dovuto al “raggiungimento degli scopi” e che la Nato lascia un Paese sostanzialmente in grado di badare a se stesso. Più “ruvido” Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, nella conferenza stampa dello scorso aprile: ”Gli alleati e i membri (della Nato) continueranno ad essere a fianco del popolo afgano, ma ora tocca al popolo afgano costruire una pace sostenibile”. In altri termini: noi ce ne andiamo e ora sono affari vostri.
Come ci si poteva aspettare, immediatamente dopo il ritiro delle forze Nato, i talebani si sono lanciati con successo alla conquista del Paese. È difficile pensare che una simile eventualità non fosse stata prevista, ma se veramente Biden e i suoi non se l’aspettavano, la pretesa di essere “guida del mondo” viene messa pesantemente in discussione. Se invece il tutto era previsto, ma considerato inevitabile, ciò che viene messo in netta discussione è “il potere del nostro esempio” proclamato da Biden. Il realismo, e forse perfino il cinismo, può essere accettato in certe drammatiche situazioni, ma dovrebbe essere accompagnato da un franco riconoscimento dei propri errori. Tanto più da parte di un Paese che, come sottolinea Paolo Quercia nella sua intervista, accompagna sempre i suoi interventi bellici con una dimensione morale.
Quercia pone in rilievo un altro aspetto importante del futuro afgano, cioè il coinvolgimento della Turchia che, con la presenza in Afghanistan, ottiene un’altra pedina per la sua geopolitica di espansione. Un regalo di Biden a Erdogan, come evidenzia Marco Lombardi sul Sussidiario, che può diventare il dominus di fatto dell’area, giocando sui vari conflitti che la affliggono. Una politica già attuata da Ankara altrove, per esempio in Siria ed Iraq, dove ha di fatto aiutato l’Isis, e che potrebbe essere replicata con i talebani. Con la Russia ha avuto rapporti ambigui, ma che in Libia si sono tradotti in una divisione di aree di influenza. È difficile che la Russia si faccia coinvolgere di nuovo militarmente in Afghanistan e ciò faciliterebbe un accordo tra Ankara e Mosca. Così come un accordo potrebbe essere trovato facilmente con il Pakistan e perfino con l’Iran, interessato all’area in cui vivono gli Hazara sciiti.
La Turchia è però membro della Nato e qui si apre una ulteriore discussione che riguarda l’Organizzazione Atlantica. La Nato non è intervenuta in Afghanistan in semplice appoggio agli Stati Uniti, ma direttamente in base all’articolo 5 del Trattato, la cui applicazione era stata richiesta da Washington. Prima e unica volta di ricorso a questo articolo, che prevede l’assistenza, anche militare diretta, dei membri dell’Organizzazione a chi di loro venisse attaccato in Europa o nell’America Settentrionale. In realtà, i talebani non avevano attaccato gli Stati Uniti, ma si erano rifiutati, dopo l’11 settembre 2001, di consegnare Osama bin Laden a Washington. Malgrado l’uccisione di bin Laden nel 2011, la guerra è continuata per altri dieci anni contro i talebani, che pure erano stati aiutati dagli Usa quando combattevano contro i sovietici.
Ora: la Turchia è in Afghanistan per conto della Nato, mentre gli altri Paesi membri si ritirano, o la sua presenza è una decisione autonoma, anche se favorita dagli Stati Uniti? La questione è forse secondaria per Washington, ma è rilevante per i membri europei, già sottoposti da Ankara a ricatto per il controllo dei flussi di migranti e la cui posizione “contrattuale” aumenterà con la gestione dei profughi afgani. Inoltre, rimane aperta la spinosa controversia provocata nel Mediterraneo dall’aggressiva politica espansionistica di Erdogan, che coinvolge, oltre Cipro e Grecia, anche Francia e Italia.
Qualche imbarazzo emerge dalle ultime dichiarazioni di Stoltenberg, il 13 agosto, in cui manifestava la profonda preoccupazione per l’offensiva talebana, con gli attacchi contro i civili, gli omicidi mirati e serie violazioni dei diritti umani. Davvero Stoltenberg e colleghi, in tutti questi anni, non avevano capito di che pasta erano fatti i talebani? Ma ecco la tremenda minaccia della Nato: “I talebani devono capire che non saranno riconosciuti dalla comunità internazionale se prenderanno il Paese con la forza. Noi rimaniamo impegnati a sostenere una soluzione politica del conflitto”. Forse aveva ragione Macron a parlare di Nato in stato di “morte cerebrale”.
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