Olimpiade di Tokyo, G20 di Roma, sistema scolastico italiano: tre fatti diversi che, però, hanno un comune denominatore dato non solo dalla loro contemporaneità. Provo a spiegarlo partendo da una parola: cultura.
Nel primo caso, un commentatore attento e mai banale come Julio Velasco (capace di portare la nazionale di pallavolo italiana ai massimi vertici mondiali negli anni Novanta) ha rilevato ai microfoni Rai che gli atleti italiani vincitori di medaglia olimpica mostrano nelle interviste di possedere notevole padronanza della lingua e che alcuni di loro sono anche laureati, a dimostrazione che sport e cultura possono andare insieme.
Nel secondo caso, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha affermato che “quando il mondo ci guarda, vede arte, musica, letteratura. La cultura è cruciale per la ripartenza del Paese” e per il ministro Dario Franceschini “la pandemia ci ha fatto capire quanto la cultura sia la linfa delle nostre vite”; la stessa Dichiarazione di Roma, sottoscritta da tutti i 32 Stati presenti, sottolinea il valore di “cultura e settori creativi come motori per la rigenerazione e una crescita sostenibile ed equilibrata”.
Quanto alla scuola non c’è ministro, dell’Istruzione o meno, che non inserisca la parola “cultura” in documenti, programmi, indicazioni che riguardino il proprio dicastero.
Eppure, l’ultima rilevazione Invalsi (1 milione e 100mila allievi delle elementari, 530mila delle medie inferiori, 475mila delle superiori) e le periodiche rilevazioni Ocse–Pisa mettono in luce ancora una volta come la cultura sia, nei fatti, la cenerentola dell’insegnamento: gli studenti escono dalla terza media sapendo a malapena leggere, scrivere e far di conto e le loro lacune si perpetuano alle superiori al punto che, se si iscrivono all’università, spesso debbono seguire un corso interno alla facoltà per poter stendere in un italiano accettabile la tesi di laurea (se invece vanno a lavorare, le loro abilità di base si perdono nel vuoto e, con tutta probabilità, non vengono più recuperate, andando in certa misura ad ingrossare le fila dei cosiddetti “analfabeti di ritorno”).
Eppure, il loro bravo “pezzo di carta” lo prendono quasi tutti, laddove l’avverbio “quasi” è inserito per puro dovere di cronaca. Mentre da un lato gli stessi organismi di cui sopra certificano l’inadeguatezza della didattica a distanza nella formazione della persona, dall’altro mai come quest’anno i 100 e i 100 e lode all’esame di maturità si sono sprecati come regali a Natale e qualcuno dovrebbe fare lo sforzo di spiegarci come le due cose possano coesistere.
C’è dell’altro: consideriamo quattro casi che, per le ragioni che sappiamo, hanno fatto clamore negli stadi olimpici giapponesi. Gianmarco Tamberi, oro nel salto in alto: a Monaco 2016, tentando i 2 metri e 41 centimetri, si rompe il legamento deltoideo del piede sinistro (due operazioni chirurgiche e un trapianto di tessuto); carriera potenzialmente finita nonostante una riabilitazione lunga e dolorosa, salvo lo straordinario recupero nel 2018 saltando 2,35 agli Europei di Glasgow. Pari merito con l’italiano, anche Mutaz Essa Barshim, qatariota e suo grande amico (a proposito: la decisione di condividere la medaglia d’oro e gli abbracci fra i due rimangono tra le pagine più belle dell’intera Olimpiade), sale sul gradino più alto del podio. Nell’aprile 2013 si procura una frattura da stress alla 5a vertebra lombare. Ne conseguono continui stop–and–go e risultati modesti anche nelle competizioni meno importanti, fino a luglio 2018 con un nuovo infortunio alla caviglia.
Vanessa Ferrari: il periodo post–olimpico di Pechino 2008 fu tra i peggiori della sua strabiliante carriera di ginnasta. Aveva gareggiato in pessime condizioni fisiche e con il morale a terra. Mesi di continua alternanza fra riabilitazioni, modesti ritorni alle gare e nuovi stop dopo l’operazione al tendine d’Achille.
Infine, Marcel Jacobs. Anche in questo caso non mancano gli infortuni, ma quello peggiore lo segna nell’anima: “Mio padre, da bambino, non lo ricordo. A scuola ero in difficoltà. Per anni ho alzato un muro e quando provava a contattarmi, me ne fregavo. Se una gara non andava bene davo la colpa agli altri. Adesso ho capito che i risultati dipendono solo dal lavoro e dall’impegno”.
Mettiamoci anche la fortuna o il Destino, chiamatela come volete, che non deve mai mancare, ma il discorso è chiaro per lui come per gli altri atleti citati (e per tanti altri anche meno noti, in questa olimpiade come nella storia dello sport mondiale): l’impegno, la costanza, la determinazione, il lavoro, la sofferenza, il sudore della fronte (proprio quello di cui parla la Genesi) sono elementi essenziali per riuscire nella vita, specie quando rema contro.
Dunque mettiamo insieme i tre fatti di cronaca: il primo ci dice a chiare lettere che l’impegno è fondamentale per riuscire e presentarsi alla vita con una cultura che tornerà utile specie quando si scenderà dalla pedana; il secondo che la cultura è fattore determinante per la crescita di una persona e di un popolo; il terzo che, anche senza cultura, sulla carta si può diventare geometra, ragioniere, tecnico o altro. Lo Stato italiano contraddice se stesso: al G20 mette la cultura al centro, nella scuola la calpesta ad ogni occasione (lo dicono le statistiche). La contraddizione è evidente. A questo punto sorge un dubbio: di quale cultura stiamo parlando? Meglio: a quale cultura si riferiscono Velasco, il governo Draghi, il sistema scolastico italiano?
È probabile che il termine non abbia lo stesso significato per tutti e specialmente per la scuola. Da qui l’urgenza di uscire dalla finzione e di chiarire una volta per tutte cosa vogliamo fare da grandi. O, meglio, cosa vogliamo che da grandi diventino i nostri ragazzi. Soprattutto quelli, la stragrande maggioranza, che non parteciperanno mai ad una olimpiade.
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