A metà degli anni Novanta si sviluppò nel nostro paese un ampio dibattito intorno al tema della nazione e della patria. Storici come Sergio Romano, Ernesto Galli della Loggia, Gian Enrico Rusconi, Giorgio Rumi e una rivista come Liberal avevano posto in termini nuovi un tema annoso, cercando innanzitutto di trovarne le radici storiche per poterne poi tracciare i connotati contemporanei. Termini come patria, nazione e Stato – che non potevano essere solo vuote parole – risalivano la corrente della dimenticanza o dell’ambiguità per entrare nell’arengo della cultura politica e, in qualche caso, della lotta politica.
Erano gli anni di Tangentopoli, di Mani pulite, della Lega Nord secessionista, della presunta fine della Prima repubblica, del presidente picconatore… Insomma, si aveva la percezione di essere nel bel mezzo di una crisi dai confini oscuri e dagli esiti incerti. Rileggendo quelle opere e i numerosissimi articoli che le hanno accompagnate, si ha la percezione che l’Italia sia ancora nel bel mezzo di quella crisi.
Certo sono cambiati, e di molto, i connotati non solo storici, ma si potrebbe dire antropologici, dell’umanità italica – e non solo. La supernazione digitale ha divorato ogni senso di appartenenza non più soltanto al proprio paese, ma addirittura all’Europa stessa, che nel frattempo si è realizzata e mai consolidata. Certo, restano vivi più che mai gli afflati effimeri del nazionalismo sportivo che premia quel nostro superego emotivo, pronto alla lacrima, ma assai vuoto di significati. La pandemia, e le sue ricadute civili, prima ancora che sanitarie, ha messo in luce tutta la fragilità della nostra identità nazionale, che vive di momenti, di frazioni, di singhiozzi, di bandiere naftalinate, di lenzuola stese ai balconi, di retorica adolescenziale.
Insomma, il nostro essere italiani sembra ancorato a quell’età in cui si potrebbe dare la vita e insieme toglierla per un futile motivo. Anzi, il trascorrere del tempo sembra aver accentuato questa regressione bambinesca e capricciosa, così che il nostro essere cittadini ha perso ogni punto di riferimento e, proprio come accade agli adolescenti, ci alimentiamo dell’illusione di poter essere padroni del nostro destino in una sociosfera vuota e illibata, accontentandoci tuttavia dell’illusione e dell’ebrezza che essa provoca negli animi imberbi.
Si sa, perfino Mussolini, che a modo suo cercò di “fare gli italiani”, dovette rassegnarsi a riconoscere che “governarli è sostanzialmente inutile” perché, anche nel momento del massimo consenso, sulla camicia nera vi era, per sbadataggine o per bastiancontrarismo, spesso un bottone bianco. Occorre riconoscerlo, questa è stata in fondo la nostra salvezza.
Tuttavia, oggi, la questione si presenta con connotazioni patologiche gravi. Negli anni Novanta si poteva ancora cercare nella storia la radice di tale identità antiidentitaria e soprattutto del distacco profondo tra la nazione e lo Stato. In ogni fase della storia nazionale italica, si è come depotenziato quel processo di mitologizzazione della nazione che diviene patrimonio comune e viene tramandato di generazione in generazione. Tante le ragioni di tale mancanza: le grandi differenze culturali e antropologiche che hanno caratterizzato il nostro Paese, la diversa storia politica, il gap economico tra regioni e regioni, un Risorgimento sostanzialmente anticlericale e massonico che ha provocato la reazione antistatuale dei cattolici, l’internazionalismo socialista, la povertà e l’esiguità della cultura liberale. Insomma, tutto è sembrato andare controcorrente proprio mentre, insieme alla Germania, arrivavamo ultimi nel processo di unificazione nazionale. Quella italiana sembra insomma essere una storia di occasioni perse, di ambiguità, di pressapochismo politico.
Galli della Loggia, in La morte della patria, pone l’accento su un’altra occasione perduta, quella che avrebbe dovuto essere l’elemento fondativo della nuova Repubblica: la Resistenza. Condannata ad essere il semplice “alleato del vincitore”, essa ha vissuto, come gran parte della storia italiana, un paradosso che è divenuto presto una radicata ambiguità: “rappresentante di un paese debellato”, ad essa “toccava di fingere di aver riportato la vittoria, senza che tuttavia le fosse possibile, in questo modo, essere né il vincitore vero né lo sconfitto”.
Portata alle estreme conseguenze tale finzione, incapace di guardarsi allo specchio e di riconoscere la possibilità che quella italiana fosse una vera e propria guerra civile, alla fine della quale vi è un vero vincitore nazionale e subito dopo un vero processo di pacificazione che avrebbe portato alla fondazione di una nazione nuova, essa ha cercato “di confiscare a vantaggio di una sola parte l’idea di nazione”. Così, “il fatto che nella democrazia italiana postbellica – scrive ancora Galli della Loggia – la classe dirigente politico-ideologica non sia stata in grado tanto a lungo di fornire una convincente rappresentazione pubblica della realtà nazionale e della sua storia […] ma abbia dovuto ricorrere ad un altissimo grado di manipolazione ideologica, ha rappresentato una causa decisiva nel rendere insolubile la crisi dell’idea di nazione”.
In fondo si perpetuava quell’illusorio equivoco che dallo Stato potesse derivare una nazione. Storia unica nel mondo occidentale, che invece aveva preso la strada opposta, come del resto insegna la Natura. Ma vi è di più: l’aver caricato la nostra Costituzione di un radicale significato antifascista, l’ha, alla lunga, di generazione in generazione, depotenziata della sua forza cogente. Nel momento in cui, alle nuove generazioni millennials, prive di conoscenza storica, orfane di testimonianze dirette e di una narrazione condivisa, proiettate oltre i confini di una patria che, al più – ma non sempre – viene riconosciuta geograficamente, viene presentata una radice irriconoscibile perché fuori da ogni perimetro di esperienza, il risultato è la sostanziale insignificanza civile della Carta stessa. Se a ciò si aggiunge che l’idea di nazione, da noi, è stata radicalmente partitizzata, affidata solo ed esclusivamente alla rappresentanza politica, si comprende come la fine dei partiti adibiti alla sua custodia abbia rappresentato la fine stessa dell’idea.
Ernest Renan, in una conferenza del 1882 su Che cos’è una nazione, concludeva: “La nazione è dunque una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L’esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni”. Ma diamine, Renan era francese e i francesi ben sanno che cos’è una nazione!
Così l’unico vero senso della nazione sopravvissuto nel nostro Paese pare essere “il sentimento che accomuna la gente contro lo Stato”, di cui parlava Sergio Romano in L’Italia scappata di mano, nella sua versione nazional-populista o nazional-pacifista, cui si dovrebbe aggiungere oggi quella nazional-sanitaria.
Se il trasformismo è stato, da Depretis in poi, la caratteristica principale della politica italiana e dello Stato, passando per Giolitti, coinvolgendo perfino Mussolini, senza risparmiare Togliatti e i democristiani, oggi lo spettacolo merita un applauso a scena aperta. Rivestito dei panni nobili della mediazione, ha ridotto lo Stato in un cul de sac senza vie d’uscita. Coriandolizzata la società nazionale, esso fatica a collocarsi nel cuore della nazione, esattamente come o peggio di prima. Estraneo ai più, insignificante per molti, nemico per tanti. Per darsi una ragion d’essere crea regole a bizzeffe, ma è incapace di farle rispettare; per far finta di accontentare tutti – vecchio vizio italico – si nasconde dietro escamotages che spesso sono più irritanti delle regole ferree e precise (si veda la patetica scelta di esigere il green pass in mensa, ma non in azienda); è uno Stato da sassolini nella scarpa, che pretende, o spera, di poter educare con i fagiolini sotto le ginocchia, quegli sregolati e ribelli dei suoi cittadini. Non è capace di obbligare, ma semina bucce di banana ad ogni angolo. Non è capace di reprimere, ma piagnucola che le manifestazioni non sono autorizzate. E via dicendo.
Con uno Stato così, preda dei tatticismi (cui si sono aggiunti gli alibi della scienza) delle mediazioni sfinenti, con un tasso di credibilità morale pari allo zero, altro non può fare che far finta di.
Ma se lo Stato fa finta, la nazione non finge e alimenta la propria identità dove vuole e dove può. L’idea suggerita da Romano, di una nazione contro lo Stato, sembra prendere sempre più corpo. Allora si manifestava con un brusio impercettibile, oggi potrebbe dar vita ad un frastuono intollerabile, tipico di una nazione che non ha mai superato la fase adolescenziale.
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