Quali insegnamenti possiamo trarre dall’annunciata sconfitta americana e degli alleati in Afghanistan? Nel suo splendido saggio Così si controlla il mondo: I meccanismi segreti del potere globale il colonnello spagnolo Pedro Banos sottolinea opportunamente come i combattenti asimmetrici applicano la propria strategia, in Afghanistan o in Iraq, per prolungare il conflitto, causare il maggior numero possibile di perdite, creare una sensazione di insicurezza permanente, indebolire la coesione nazionale attraverso la paura, costringere i governi democratici ad andare contro i loro stessi principi, rompere alleanze internazionali e influenzare le popolazioni avversarie affinché facciano pressioni sui propri governanti spingendoli a compiere scelte che li favoriscano.
Infatti i combattenti asimmetrici devono essere considerati dei veri e propri maestri della guerra psicologica e mediatica, poiché sfruttano questo vantaggio rispetto a un nemico che militarmente potrebbe schiacciarli senza problemi. Non solo: questi non hanno un’opinione pubblica a cui rendere conto, e nemmeno un Parlamento titubante e influenzabile che ponga un freno alle loro iniziative.
Il centro di gravità su cui agiscono sono le opinioni pubbliche e i decisori politici, poiché le parole e le idee sono le truppe d’assalto della guerra rivoluzionaria. Nell’attuale contesto, un aumento della forza non si traduce inevitabilmente in un aumento del potere. Inoltre, il forte non è in grado di sfruttare tutto il suo potenziale bellico, per rispetto dei suoi principi e valori democratici e per le limitazioni che gli vengono imposte dall’opinione pubblica.
Per questo il debole ha la possibilità di vincere e ne è sempre più consapevole. Le strategie asimmetriche sono alla portata di tutti e hanno sempre maggiori chance di successo, per cui non ci si deve stupire che se ne faccia così largo uso. Bisogna ricordare che per il potente, non vincere significa perdere; per il debole, invece, non perdere significa vincere. Entrando nello specifico il colonnello spagnolo osserva alcuni plateali errori commessi dagli americani durante la loro presenza in Afghanistan.
A metà febbraio 2012, i militari americani iniziarono a requisire tutte le copie del Corano e di altri testi islamici dalla biblioteca del centro di detenzione di Parvan, situato vicino alla base aerea di Bagram, la più importante degli Stati Uniti in Afghanistan. La motivazione addotta fu che si riteneva che i detenuti le stessero usando per fare proselitismo o per scambiarsi messaggi estremisti. Ed ecco perché gli americani stavano progettando di distruggerle.
Nelle prime ore di martedì 21 febbraio, alcuni lavoratori afghani della base notarono un camion scortato da un mezzo militare, diretto verso la discarica. Secondo i testimoni oculari, due soldati americani – una donna e un uomo – cominciarono a scaricare dal camion sacchi pieni di quelli che sembravano libri e a buttarli nell’inceneritore, con evidente distacco, come se non dessero la minima importanza a ciò che stavano facendo e senza nemmeno cercare di nascondere il contenuto dei sacchi. Quando si resero conto che i soldati stavano buttando dei libri nel fuoco, la curiosità fece avvicinare i lavoratori locali, che rimasero a bocca aperta nel rendersi conto che si trattava di copie del Corano. Subito, gli afghani presenti, sconvolti, si scagliarono contro i soldati, urlando che si trattava del loro libro sacro e che non poteva essere dato alle fiamme. Di fronte a quella reazione inaspettata, i soldati si allontanarono. Ma ormai avevano già buttato nell’inceneritore due sacchi pieni di copie del Corano che stavano iniziando a bruciare.
Gli afghani presenti cercarono di spegnere il fuoco e di recuperare i volumi e in parte ci riuscirono. Ma ormai una decina di copie era andata distrutta. Con gli esemplari bruciacchiati che erano riusciti a salvare dalle fiamme, i lavoratori del posto corsero a informare altri afghani della base. Alcuni di questi uscirono nascondendo le copie per mostrarle ai connazionali. La notizia si diffuse in fretta. Poche ore dopo l’accaduto, oltre duemila persone erano già radunate all’ingresso della base per protestare, in maniera rabbiosa e persino violenta, contro la grave offesa alla fede praticata dalla stragrande maggioranza dei locali. Presto in tutto il Paese ci furono manifestazioni che, in alcuni casi, si trasformarono in azioni violente contro le strutture che ospitavano personale straniero, in particolare statunitense.
Non furono solo i civili a reagire all’oltraggio: un membro della polizia afghana, di servizio al ministero degli Interni di Kabul, uno dei luoghi più protetti del Paese, sparò due colpi alla nuca di un tenente colonnello e di un comandante statunitense che si trovavano lì per una consulenza. La tensione in Afghanistan crebbe e comportò praticamente la paralisi burocratica, poiché l’ordine di ritiro del personale straniero portò alla chiusura di numerosi uffici. D’altra parte ciò sottolineava la forte dipendenza del Paese non solo dagli aiuti economici ma anche dai numerosi collaboratori internazionali presenti negli organismi ufficiali. Il bilancio finale delle vittime fu di oltre duecento feriti di diversa gravità. Le proteste si estesero anche in Pakistan, soprattutto nelle aree di confine, dove decine di migliaia di persone, già risentite per i quotidiani attacchi dei droni, scesero in piazza contro gli Stati Uniti.
Dal canto loro, i talebani non persero l’occasione offerta dai nemici su un vassoio d’argento ed esortarono gli afghani a pretendere il ritiro di tutte le truppe straniere che accusavano – e non a torto – di mancanza di rispetto verso la loro religione, le loro tradizioni e la loro cultura. Fecero anche specifici appelli ai militari e alla polizia afghani affinché si ribellassero contro le truppe della Nato. Alla fine di agosto del 2012, e in seguito a una lunga indagine, l’esercito americano ha riferito ai media di aver punito con sanzioni amministrative – senza fornire ulteriori dettagli – sei dei propri soldati per l’incendio dei libri sacri, dichiarando però che non vi era stata alcuna cattiva intenzione o mancanza di rispetto nei confronti dell’islam.
Non c’è dubbio che non sapere che il Corano è l’oggetto materiale più sacro e importante per qualsiasi musulmano, anche non fanatico, è stata una prova di scarsa “intelligenza culturale”. Per i seguaci della fede islamica in quel libro è racchiusa la parola di Allah, trasmessa al profeta Maometto affinché la diffondesse nel mondo. Ed è così importante che nessun altro oggetto può essere messo sopra al Corano, che deve sempre occupare una posizione di superiorità e prominenza ed essere trattato con il massimo riguardo. Ma gli errori da parte americana non si conclusero qui.
Il 5 settembre 2017 forze statunitensi di stanza in Afghanistan distribuirono, nella provincia di Parvan, volantini propagandistici che raffiguravano un leone (che avrebbe dovuto rappresentare l’esercito e la polizia afghani) che insegue un cane (in riferimento ai talebani). Perché il popolo capisse che il cane simboleggiava i talebani, sull’immagine dell’animale era riprodotta una parte della bandiera talebana, proprio quella, tuttavia, dove erano scritte le lettere della shahāda, la professione di fede e primo pilastro dell’islam (“Testimonio che non c’è divinità se non Allah e che Maometto è il Suo Messaggero”), ignorando inoltre che il cane è considerato dai musulmani un animale impuro.
I talebani approfittarono subito dell’errore per aizzare la popolazione contro i militari stranieri e il governo di Kabul e lanciarono un attacco suicida contro la base aerea di Bagram per vendicarsi di quell’oltraggio all’islam. Ci sono state anche dichiarazioni ufficiali di condanna, come quelle del governatore provinciale Mohammad Asim, che chiedeva a gran voce di sapere chi fossero i responsabili di quel gesto perché venissero processati. La situazione si inasprì a tal punto che il giorno dopo il comandante in capo della Special Operations Joint Task Force-Afghanistan “Afghanistan (Sojtf-a), il generale americano James B. Linder, fu costretto a scusarsi pubblicamente per aver commesso l’errore di progettare un volantino con un’immagine offensiva per i musulmani e per la religione islamica, cercando così di evitare altre manifestazioni di protesta o nuovi attacchi.
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