Il noi, la forza dell’io

Si apre oggi il Meeting di Rimini con il titolo "Il coraggio di dire io". Appare sempre più evidente il bisogno di un "noi" per il futuro

Il mondo è preda di eventi epocali. Dal profondo cambiamento dei rapporti di forza tra popoli e nazioni, che non smette di trascinare con sé guerre, povertà e ingiustizie. Al declino del modello di sviluppo occidentale, che sta tradendo la sua promessa fondamentale, quella di migliorare le condizioni di vita di una porzione crescente di popolazione grazie a un lavoro dignitoso. Al difficile rapporto con l’ambiente, di cui la pandemia è l’esempio più drammatico degli ultimi tempi.

In questo contesto oggi si inaugura il Meeting di Rimini. Il titolo di quest’anno “Il coraggio di dire io” potrebbe apparire fuori centro, far pensare a una “bolla” difensiva per “io” smarriti e in crisi di identità.

Nell’ultimo anno e mezzo di pandemia, ma anche assistendo a eventi più leggeri, come quelli sportivi di questa estate, abbiamo sperimentato che i successi sono sempre il risultato di un “noi”. Il “coraggio del noi” apre a percorsi di crescita per tanti “io”. Itinerari spesso accidentati, che hanno messo in luce limiti e fragilità personali enormi. Nessuna idea di sé titanica o difensiva, ma la ripresa di consapevolezza e l’apertura su ciò che accade – a volte buttando il cuore oltre l’ostacolo – si sono trasformati nel bisogno di dire “noi” per poter davvero dire “io”.

“Che abbaglio colossale abbiamo preso”, ha scritto qualche anno fa Pierluigi Battista sul Corriere della Sera, “l’abbiamo chiamata liberazione, ed era solitudine di massa. Emancipazione dalle appartenenze, dalle ideologie, dalle corporazioni, oppure, con termine gergale più sofisticato, ‘disintermediazione'”.

Quando, credo presto, dovremo inventarci un nuovo modo per stare al mondo, a questo “noi” bisognerà non rinunciare più. L’energia trasformativa, che si chiama “lavoro dignitoso”, dovrà essere potenziata (il lavoro non è solo stipendio, ma anche crescita personale): uno sviluppo senza occupazione non è umano (se ne parlerà al Meeting nel Talk della Fondazione per la Sussidiarietà “Il lavoro che verrà”).

Prima di tutto il futuro ci obbligherà a continuare a imparare lungo tutta la vita attiva. Apprendimento e formazione sono fatti comunitari. Come stanno dimostrando ogni giorno imprese e agenzie di selezione, una competenza sempre più richiesta è quella di sapere lavorare in team, così come per le imprese, quella di fare rete.

Ed è ancora un senso del “noi”, quello che serve per rafforzare e innovare il sistema-Paese e attuare quelle misure che costituiscano il terreno di coltura per la creazione di imprese e quindi di lavoro dignitoso (riforma della Pa, giustizia e burocrazia).

In un sistema irreversibilmente sempre più globalizzato, l’altro “noi” da dire è quello che porterebbe a una maggiore integrazione europea. Con l’abolizione dei paradisi fiscali, l’equiparazione dei sistemi fiscali e di welfare. In questo modo il modello di sviluppo diventerebbe più sostenibile.

In definitiva, perché il sistema liberista contemporaneo ha tradito le sue promesse? Perché garantisce sempre meno a chi lavora e lo fa anche duramente, la possibilità di emanciparsi.

Nessuna somma di denaro può permettere il rilancio dello sviluppo quando tra poche decine di anni, un miliardo di persone farà lavori che oggi non sono ancora stati inventati, quando il cambiamento continuo è all’ordine del giorno. La capacità di collaborare diventerà ancora più determinante per conoscere e creare ricchezza vera, non artefatta dalla finanza.

Nella tutela della salute tornano decisivi i comportamenti collettivi, il rispetto della vita degli altri, la cui salute dipende dalla responsabilità di tutti. L’allungamento della vita e le malattie croniche aumenteranno il bisogno di prendersi cura gli uni degli altri, professionalmente e umanamente.

Pensiamo anche alla transizione ecologica. Come sarà possibile realizzarla senza instaurare un rapporto stretto, di dialogo e di fiducia con i Paesi in via di sviluppo? Bisognerà trovare modi per difendere il pianeta senza rimandare la loro uscita dall’indigenza.

La responsabilità verso il pianeta e verso i suoi abitanti del futuro non può che essere collettiva.

Non si può non constatare in tantissimi settori la fine dell’illusione secolare dell’uomo misura e dominatore di tutte le cose nella sua versione individualistica della filosofia settecentesca, che ha permeato fino a ieri economia, politica, sanità e ogni aspetto della vita umana.

Eppure invece che il ritorno a un pessimismo radicale, alla fine difensivo, questo dovrebbe essere il momento per aprirsi a nuove prospettive.

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