Un titolo, una domanda, un film, una didascalia, un monologo. Il titolo è «II coraggio di dire io», una citazione tratta dal Diario di Søren Kierkegaard scelta per l’edizione 2021 del Meeting per l’amicizia tra i popoli, tornata in presenza nei padiglioni della Fiera di Rimini. Come ha ricordato il direttore della Fondazione Meeting, Emmanuele Forlani, «[i]l messaggio non ha nulla di narcisista e di muscolare. Vuol semplicemente dire che ciascuno, mettendo in gioco se stesso e la sua responsabilità, può aiutare a costruire un Noi». La domanda è «Cosa vuole Cristo da noi?», che Terrence Malick ha rivolto per lettera direttamente al quasi coetaneo Martin Scorsese dopo aver visto il suo Silence (come rivelato dal regista italoamericano in occasione del Tribeca Film Festival 2019). Il film è A Hidden Life (titolo originale da preferirsi rispetto all’italiano La vita nascosta – Hidden Life), scritto e diretto per l’appunto da Malick, unica proposta cinematografica tra gli spettacoli nell’ambito del programma del Meeting, che sarà proiettato stasera alle ore 20.30 presso la Corte degli Agostiniani in Via Cairoli 40 (in caso di maltempo, la serata verrà recuperata domani, lunedì 23 agosto).
Presentato in concorso alla 72ª edizione del Festival di Cannes nel maggio 2019, è la storia degli ultimi tre anni di vita di Franz Jägerstätter, contadino di Sankt Radegund – paese dell’Alta Austria (o Austria Superiore) a ridosso del fiume Salzach – che, trentaseienne, rifiutando l’arruolamento nell’esercito nazista, viene rinchiuso nel carcere militare di Berlino Tegel, condannato a morte dopo un processo di un solo giorno (6 luglio 1943) e quindi ghigliottinato nel carcere di Brandeburgo sull’Havel alle ore 16 del 9 agosto, lasciando la moglie Franziska Schwaninger (1913-2013), sposata nel 1936, le tre figlie Rosalia (1937), Maria (1938) e Aloisia (1940) e proclamato beato nel duomo di Linz il 26 ottobre 2007.
La didascalia è tratta dal romanzo Middlemarch di George Eliot – pseudonimo maschile utilizzato fin dalla sua prima opera dalla scrittrice britannica Mary Anne Evans – e posta dal cineasta texano a chiusura delle quasi tre ore di durata del suo film: «[…] perché il crescente bene del mondo dipende in parte da gesti che non fanno la Storia; e il fatto che per me e per te le cose non vadano così male come avrebbero potuto lo dobbiamo per metà a coloro che hanno vissuto con fedeltà una vita nascosta [corsivo mio, ndr], e riposano in tombe che nessuno visita».
Il monologo è del pittore Ohlendorf, mentre sta restaurando alcuni dipinti e affreschi alla presenza di Franz, in una sequenza che più di altre fa sensibilmente avvertire la prossimità della domanda malickiana a quella/e (più o meno) posta/e anche da altri suoi illustri colleghi e predecessori quali Ingmar Bergman (Il settimo sigillo, 1957) e Andrej Tarkovskij (Andrej Rublëv, 1966): «Ho dipinto le tombe dei profeti. Ho aiutato le persone sedute qui a guardare in alto e sognare. Guardano in alto e pensano che, se fossero vissute al tempo di Cristo, non si sarebbero comportate come gli altri. Che sicuramente avrebbero ucciso quelli là, per difenderlo. Io dipingo tutta questa sofferenza – e invece io non soffro. Con questo lavoro ci vivo. Ciò che facciamo è semplicemente generare… simpatia. Noi creiamo – Noi creiamo ammiratori. Non creiamo seguaci. La vita di Cristo è un appello. Tu non vuoi che te lo si ricordi. Così non dobbiamo vedere ciò che accade alla verità. Un tempo più buio sta arrivando… quando gli uomini saranno più scaltri. Non combatteranno più la verità, semplicemente la ignoreranno. Dipingo il loro confortevole Cristo con un’aureola sulla sua testa. Come posso mostrare ciò che non ho vissuto? Un giorno forse avrò il coraggio di rischiare, non oggi. Un giorno… dipingerò il vero Cristo».
Un passaggio se non proprio decisivo comunque altamente significativo non solo nell’ambito della vicenda narrata, ma anche alla luce del fatto che Malick sta attualmente lavorando al montaggio della sua nuova opera, nota dapprima come The Last Planet e ora come The Way of the Wind (un titolo inizialmente accantonato ma che sembra meglio rispecchiare la volontà dello stesso regista e sceneggiatore fin dalla prima stesura del soggetto): da quanto si può sapere, pare si tratti di un film di carattere sia storico che religioso che, attraverso una rivisitazione delle parabole evangeliche, intende narrare diversi episodi della vita di Cristo (circostanza che lo avvicina a un altro gigante della settima arte, Carl Theodor Dreyer, il cui più grande progetto in carriera fu infatti una pellicola su Gesù mai realizzata). Un ulteriore, personalissimo passo di un uomo che incidentalmente lavora nel mondo del cinema e si sta a poco a poco approssimando al proprio “fuoco”, a quello che emerge ormai da tempo e con evidenza come il vero centro di tutto il suo interesse.
A ogni modo, per restare al suo film su Jägerstätter, c’è un particolare “passaggio del testimone” che colpisce davanti alla cronologia della vita di Franz: il 23 febbraio 1943 riceve la chiamata alle armi, fatto che il 2 marzo lo porta, una volta lasciata la caserma di Enns per recarsi a messa, a rientrarvi nella tarda mattinata, esprimere il suo rifiuto e venire quindi tradotto nel carcere giudiziario della Wehrmacht a Linz il pomeriggio stesso, prima del trasferimento senza alcun preavviso a Berlino il 4 maggio. Il giorno prima della chiamata di Franz, sua prima tappa del percorso verso il martirio, il 22 febbraio, la ventunenne Sophie Scholl, suo fratello maggiore Hans Scholl e il loro amico Christoph Probst, arrestati il 18 febbraio, venivano condannati a morte e immediatamente condotti al patibolo per essere ghigliottinati per alto tradimento nella prigione di Stadelheim a Monaco di Baviera. Un’altra storia di fede (e amicizia), un medesimo “coraggio di dire io”.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.