Nell’analizzare gli effetti socio-economici della grande crisi da Covid-19 che stiamo (ancora) vivendo, negli Stati Uniti si è iniziato a parlare di “Shecession” ossia di una recessione che colpisce le donne molto più degli uomini. Una denominazione opposta a quella della crisi del 2008 denominata, in quel caso, “Mancession” dal momento che colpì, a differenza della crisi attuale, maggiormente i lavori nei settori a prevalenza maschile.
Questa volta sono invece le donne le principali vittime dello sconvolgimento sociale ed economico causato dagli effetti globali del virus. Un fenomeno di livello mondiale, che ha determinato un calo del 4% della forza lavoro femminile a livello Ocse e un impatto negativo sui salari dell’8,1% per le donne contro (solamente?) il 5,4 % degli uomini.
Interessante in questo quadro generale guardare, come ha fatto recentemente anche Inapp, alla “Shecession” italiana. A dicembre 2020, le donne occupate erano 9 milioni e 530mila e gli uomini 13 milioni e 330mila. Rispetto all’anno precedente si contano 444mila persone occupate in meno, di cui ben 312mila donne. Un dato che corrisponde, quindi, a un calo dell’occupazione del 3,6% per le donne e del 2% per gli uomini.
Rispetto poi alla tipologia di lavoro, le donne occupate sono diminuite del 2,6% nel lavoro dipendente (contro l’1,9% degli uomini) e dell’8,3% nel lavoro indipendente (contro il corrispondente -2,5% maschile). In questo quadro è già possibile individuare almeno alcuni fattori che hanno incrementato la shecession in Italia.
Tra questi vi è, ad esempio, la composizione settoriale dell’occupazione: le donne lavorano, infatti, più degli uomini, nei settori e nei servizi oggetto a lungo di misure restrittive e di chiusure disposte nel rispetto del distanziamento sociale e che faticano ancora a riprendersi. Ha inciso inoltre il mancato rinnovo dei contratti a termine, in cui le donne sono da sempre presenti in proporzione maggiore, che ha riguardato il 16,2% delle donne contro il -12,4% degli uomini. Più complessivamente la riduzione di nuovi rapporti di lavoro che è stata nel 2020 molto più marcata per le donne (-1.975.042) che per gli uomini (-1.486.079) in quasi tutte le tipologie contrattuali (nel tempo determinato -52% donne e -48% uomini; nell’apprendistato -51% donne e -47% uomini; nel lavoro stagionale -34% donne e -31% uomini).
Fattore incisivo sulla partecipazione femminile complessiva al nostro (già in difficoltà) mercato del lavoro è stato anche il crescente onere, in questi mesi difficili, di cura su anziani e minori che ha rafforzato l’etichetta per le donne over 40 di “sandwich generation”.
La crisi, insomma, sembra non essere “neutrale” dal punto di vista del genere. In questa prospettiva sarà certamente utile, e importante, capire come si muoverà il Governo, con particolare riferimento alle risorse del Recovery plan, per rilanciare l’occupazione delle donne nel nostro Paese. Manca, infatti, ancora molto, e direi storicamente, per la definizione di una seria, organica, strategia di “armonizzazione” dei tempi di vita e di lavoro per l’Italia dove i primi sono, tradizionalmente, a carico prevalentemente delle donne.
La speranza è che, nei prossimi mesi, si assista a scelte importanti che rilancino, senza schemi e pregiudizi ideologici, la discussione. Il nostro Paese, infatti, non potrà ripartire se continuerà, ancora una volta, a rinunciare al prezioso contributo che la componente femminile della nostra comunità può dare.