Nel testo dostoevskijano chi dice io non lo fa per affermare sé stesso, una propria posizione o anche una visione del mondo, magari etica. Chi dice io, infatti, lo fa in ritardo, non in prima battuta e con ostentata sicurezza. E dice di sé quasi con affanno, un po’ con sommesso pudore. La sua presa di parola avviene quasi con fatica, ma dettata da un’urgenza non dovuta a un possesso o a un dominio sul reale. Il soggetto si esprime per “una serietà terribile”, come dice Contini a proposito di Dante, dovuta a uno struggente e drammatico interesse per il destino degli altri, di sé, del mondo. L’io che dice io, tuttavia, non ha coraggio e non è coraggioso, anzi è ferito da una vulnerabilità che lo attraversa e lo segna. Dalla sua incerta claudicanza emerge, però, in modo sorprendente, un coraggio che viene da Altro, che l’io si trova addosso come in un rimbalzo. Chi ha provato il sapore dell’essere terra, chi ha sentito la fragilità dell’errore, del peccato, dell’angoscia, gridando aiuto e intravedendo tutta l’esiguità mortale propria e altrui, si trova ora a dire io.
Sonja, protagonista in Delitto e Castigo, costretta a prostituirsi, ferita nella dignità, dilapidata nel suo essere, trova ancora una debole forza per dire io a un tu. Sa cosa significa sprofondare nell’abisso, perdersi e sentire l’amarezza di una vita sprecata. Prende perciò la parola con timida incertezza per il bene di Raskol’nikov, autore di un duplice omicidio. La sua parola non è assertiva, anzi è segnata dal tremore. E va verso chi ha una posizione cerebrale e antiteistica, senza ragionevole possibilità di riuscita.
Tuttavia, Sonja si dona senza riserve e dona ciò che non ha e che non è, ma nascostamente riceve, come non del tutto suo. Non è, per certi versi, neanche una testimone credibile. Come fidarsi, infatti, di chi vive ancora una vita segnata dal nulla e dalla prostituzione? Ma dalle parole di Sonja traspare, nonostante l’io, una compagnia nell’anima che si rende presente in un percorso. Sonja crede veramente che l’impossibile è diventato carne. Che la Resurrezione sia vera non magicamente, ma come un Avvenimento presente che guarisce nel tempo, aprendo la storia per il ritorno a una vita umana. Insomma, Sonja fa vedere a Raskol’nikov la luce di una possibilità. Che possa esserci una fuoriuscita, un varco, un’evasione dal blocco esistenziale, dal punto cieco. Questo apre una strada. L’io ferito di Sonja indica un cammino all’io che ha ferito, che ha ucciso.
Anche un altro personaggio dostoevskiano, il passionale Dmitrij Karamazov, trova il coraggio di dire io. Mortificato nel pudore, incolpato per il delitto del padre, desiderato e cercato, ma non commesso, aderisce a un Altro. Non è una scappatoia, ma la radicale insoddisfazione verso ciò che dice il mondo: lettura biologistica della coscienza, riduzione della domanda sul senso della vita a sola etica e angusta restrizione del dramma del male al condizionamento ambientale. Tali filosofie uccidono l’uomo perché non ne vedono il dramma e la lotta, generando una nostalgia infinita. Dmitrij, anziché stare nel nulla di moda e à la page, preferisce dare credito al sogno di un innocente “bimbino” che piange – figura dell’Altro –, accettando tutta la sua sofferenza. E così finalmente dice il suo io: un io che nasce dal basso, dai bordi, dal limite: “Mi dibatto tra mille tormenti, ma esisto, sono alla tortura, ma esisto! Sono alla gogna, ma esisto anch’io e vedo il sole”. I personaggi dostoevskijani, insomma, aprono l’universale terreno per una domanda: “E io ?”. Già, io.
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