Era il 18 agosto 2020, un anno esatto fa, quando la Cattedrale dedicata ai Santi Pietro e Paolo a Nantes andava in fiamme nella parte centrale dell’edificio gotico, con seri danni allo storico organo e a parte del tetto: per quel fatto che risvegliò in Francia l’incubo dell’incendio a Notre Dame di Parigi del 2019, il responsabile venne identificato in Emmanuel Abayisenga, cittadino ruandese irregolare che purtroppo lo scorso 9 agosto uccideva Padre Olivier Maire, religioso missionario monfortano in Vandea, che lo aveva accolto nella sua congregazione.
Su “Le Figaro” il filosofo francese cattolico – membro dell’Institut de France e professore emerito all’università Panthéon-Sorbonne – Remi Brague ha provato ad approfondire la figura di questo sacerdote, missionario e fedele all’insegnamento di Cristo sulla carità infinita. «L’autore del crimine che, si dice, ha spontaneamente confessato l’assassinio, era noto per aver tentato di incendiare la cattedrale di Nantes dove lavorava come sacrestano da volontario. Cos’ha spinto quest’uomo, che manifestamente aveva qualche problema, a compiere quest’atto? Era un piromane? Era distrutto da ciò di cui era stato testimone da adolescente in Ruanda? Era deluso dal rifiuto della domanda d’asilo? O era devastato dal periodo trascorso in detenzione?», si chiede il pensatore che ammette il fallimento delle istituzioni nel non aver messo in un istituto l’irregolare ora reo confesso.
“PADRE MAIRE NON È UN MARTIRE, ECCO PERCHÈ”
Padre Maire nel suo tentativo di accogliere quell’uomo così problematico in Francia viene considerato da alcuni “eccessivo” nel suo spirito di compassione, addirittura in molti ritengono che il missionario sia stato accecato dalla sua bontà nel non vedere il rischio davanti a sé: «La bontà non acceca mai», replica Brague su “Le Figaro”, «Al contrario, permette di vedere (…). Amare, in realtà, allarga e rende più profondo lo sguardo (…). Essere buono, significa volere il bene, per sé e per gli altri, e talvolta far passare il bene degli altri prima del proprio bene. Significa dunque anche dotarsi degli strumenti per vedere una capacità di fare del bene anche in quelli che, a prima vista, sembrano esserne incapaci. Si cerca di dare una possibilità a chi forse non lo merita. Ciò implica dei rischi, che possono essere grossi. Tutto porta a credere che padre Maire lo sapesse». Era un missionario, tutt’altro che uno sprovveduto Padre Maire, semplicemente credeva fermamente nell’insegnamento di Gesù. «La carità non è mai troppa (…). Ma deve includere il dovere di prudenza. Bisogna in effetti chiedersi non tanto se una persona può volermi fare del male, rischio che ho il diritto di correre, ma se può essere pericolosa per gli altri. Allo stesso modo, “porgere l’altra guancia” è magnifico fino a quando si tratta della mia guancia. Ma raccomandare al mio prossimo di farlo, mentre io sono al sicuro, è assolutamente ignobile», ribadisce a “Le Figaro” il filosofo francese. L’unico appunto che Brague sottolinea non è tanto sul povero sacerdote ucciso, ma sull’identificazione di stampa e società come un “martire” della Chiesa: «Il cristianesimo chiama in questo modo quelli che si sono lasciati uccidere perché avevano, per libera scelta, rifiutato di rinnegare Cristo, e dunque, secondo l’espressione tecnica, sono morti “in odium fidei”». Remi Brague si augura di poter incontrare in Paradiso quel missionario così «fedele alla bontà del Cristo», anche se conclude «non lo cercherò nella compagnia dei martiri» (ringraziamo la traduzione del “Foglio” all’intervista integrale di Remi Brague a “Le Figaro”).