Kabul, l’odio dell’Isis e quel perdono mancato

Pervertire la dinamica della conoscenza religiosa, riducendo Dio ad un "mistero" in nostro possesso. Questo sta all'origine dell'ultimo attentato a Kabul

Da dove nasce la cieca follia che ha portato gli estremisti islamici di Kabul a farsi esplodere nel tormentato aeroporto della città, teatro da settimane di un esodo di massa degli occidentali e degli afghani loro collaboratori? Da dove nasce la violenza che tinge di rosso sangue il canale accanto allo scalo aeroportuale e che ributta l’intera area vent’anni indietro nel tempo?

La risposta a queste due domande potrebbe certamente essere politica, frutto di un’attenta analisi storica di quanto accaduto in terra afghana se non dal 1980, almeno dal 1996, ma risulterebbe insufficiente, inefficace nel farci capire l’origine di tutto quest’odio.

Esiste pertanto un’altra risposta che emerge dall’imminente ventennale dell’attentato alle Torri Gemelle. Chi ha vissuto quei giorni si ricorda certamente come furono trattati migliaia di uomini e donne innocenti: come simboli. Il grande limite dello jihad fondamentalista è quello di pervertire la dinamica della conoscenza religiosa: non la realtà come segno, come Parola e parabola da seguire e interpretare, ma la realtà come simbolo da conquistare per manifestare al mondo un potere, un’egemonia, che è quella di Dio.

Si può dunque dire, a ragione, che la prima causa di quanto stiamo vedendo in queste ore di sangue è la mancanza di un rapporto autenticamente religioso con la realtà. È paradossale: non la religione, ma l’assenza di religiosità genera terrore, genera cosificazione della vita umana e svalutazione del desiderio di migliaia di persone che dall’Afghanistan vorrebbero solo fuggire. Anzi: quel desiderio non è avvertito come un dato da cui lasciarsi interrogare e cambiare, bensì come una minaccia da ricondurre al proprio controllo e al proprio potere. Avrà sempre paura del desiderio degli altri chi difetta del rapporto con Dio, chi ha ridotto quel rapporto a qualcosa di gestibile e razionalmente funzionale.

Eppure la mancanza di religiosità non basta a spiegare tanta efferatezza, tanto spasmodico accanimento. C’è un altro fattore che purtroppo illumina un mistero così macabro. Chi ha negli occhi e nel cuore i giorni dopo l’11 settembre non può che ricordare le inaudite parole di Giovanni Paolo II che invitava il presidente Bush a perdonare i terroristi. Ma l’America orgogliosa e ferita non sapeva che cosa farsene di quel perdono e il Papa profetizzò conseguenze devastanti per la superpotenza, conseguenze figlie di quel mancato perdono che – per decenni – avrebbero perseguitato l’America, gli americani e i loro alleati occidentali. “La vera giustizia – disse l’anziano uomo polacco – è il perdono”.

Proprio la mancanza di coraggio, il coraggio di perdonare, spiega tutto l’esacerbarsi di questi decenni: morte chiama morte, violenza chiama violenza, paura chiama terrore. E il cielo si fa sempre più buio sopra Kabul. In una logica di recriminazione e di cattiveria che ci riguarda tutti. E che annuncia un altro, imprevedibile, lungo inverno. 

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