Dovrà guardarsi bene alle spalle Mario Draghi. Dopo la pausa estiva ha davanti il periodo più delicato da quando si è caricato sulle spalle il governo del paese. La ragione è facile da comprendere: dentro la sua variegata maggioranza la tensione è destinata a cresce in modo esponenziale man mano che ci avvicineremo alle elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre.
Settembre sarà un mese delicatissimo: ci sono sei decreti legge giacenti da convertire in legge, e alcuni sono importanti, come quello per il ritorno a scuola e per il green pass nei ristoranti e sui mezzi di trasporto. Sul suo percorso parlamentare ci sono la bellezza di 1.300 emendamenti, 900 dei quali presentati dalla Lega.
In parallelo non può conoscere soste, o rallentamenti, il lavoro intorno al Recovery Plan, vera sfida cruciale per il paese, come il presidente Mattarella non si stanca di ricordare. Eppure la strada del governo è irta di trappole. Si è visto chiaramente intorno alla riforma della giustizia, quando Draghi ha dovuto intervenire in prima persona per disincagliare il progetto Cartabia finito sulle secche. Quel soccorso obbligato al suo ministro della Giustizia ha suggerito al premier prudenza estrema, facendo scivolare a dopo le ferie la discussione su altre riforme cruciali nell’ambito del Recovery: il processo civile, il Consiglio superiore della magistratura e soprattutto la delega per la riforma fiscale, probabilmente la sfida più complicata dell’autunno. Peraltro, non si può escludere che i pentastellati tornino alla carica, cercando di rimettere in discussione il testo sulla giustizia votato alla Camera prima della breve pausa agostana.
In piena campagna elettorale le posizioni dei partiti sono fatalmente destinate a differenziarsi su ogni questione: Salvini minaccia sfracelli per cancellare il reddito di cittadinanza, che i 5 Stelle ormai targati Conte sembrano intenzionati a difendere a oltranza come ultima bandiera, e il Pd preso fra due fuochi. E il tema non potrà che finire per intrecciarsi con la discussione sul nuovo assetto degli ammortizzatori sociali, partita con il piede sbagliato, visto il muro contro muro fra imprenditori e sindacati. A settembre è slittato, visti i contrasti, anche il disegno di legge sulla concorrenza, che il governo dovrebbe varare in una delle prime sedute dopo la pausa estiva. C’è il nodo dello scoraggiamento delle delocalizzazioni che ha portato in trincea il leader di Confindustria Bonomi; la discussione non sarà affatto semplice.
Alla fine, tutti i problemi rischiano di ammonticchiarsi sulla scrivania di Draghi, la cui autorevolezza si è sin qui rivelata decisiva per trovare soluzioni digeribili da tutti. Con il suo prestigio il premier ha ottenuto in pieno agosto le dimissioni spontanee del sottosegretario leghista Durigon, dopo lo scivolone sul parco di Latina. Ma quello stesso peso politico sarà decisivo per evitare che Salvini chieda in cambio la testa del ministro dell’Interno Lamorgese, accusata di incapacità nel gestire il dossier migranti dal Nordafrica.
Lista lunga, insomma, insidie a ogni passo, cui devono aggiungersi anche quelle che possono venire da temi da cui il governo si è prudentemente tenuto alla larga, a cominciare dal disegno di legge Zan, nelle intenzioni destinato a combattere l’omotransfobia. Lo scontro frontale fra le due anime della maggioranza a luglio è stato evitato solo con un rinvio. La discussione dovrebbe riprendere a inizio settembre in Senato, ma i rumors di palazzo segnalano la possibilità di un rinvio di un mese, così da scivolare oltre le elezioni amministrative, e disinnescare una mina insidiosa: nessuno sembra intenzionato a cedere.
Sino al voto di ottobre tutte le tensioni saranno amplificate dall’esigenza di smarcarsi e di attrarre il voto degli elettori. Non è però che dopo il passaggio elettorale il clima sia destinato automaticamente a rasserenarsi: ad agitare il dibattito, a a quel punto, sarà l’avvicinarsi della scelta del successore di Sergio Mattarella al Quirinale. E il nome di Draghi rimane una delle ipotesi, con tutte le incognite che si porterebbe appresso. L’arbitro della situazione rimarrà più che mai il premier: dai suoi orientamenti dipenderanno molte delle scelte future del paese.
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