Non sapremo mai che cosa passasse in mente a quei due ragazzi. Sembra che tutto sia accaduto per un banale spintone, un’occhiata poco amichevole, qualche vecchia ruggine accumulata negli anni di scuola. Non lo sapranno mai le loro famiglie, così come non riescono a spiegarlo neanche gli amici che erano loro accanto.
Gennaro era un ragazzone, anni di allenamento, un futuro da pugile. Non proprio il tipo da prendere in giro. Era cresciuto a San Marco Evangelista, un comune che si raggiunge dal vialone costruito dai Borboni che da Napoli conduce alla Reggia. Ma la sua vita la trascorreva nella palestra Team Energy Boxe di Caserta, in cui si rintanava per ore dopo essere stato a scuola, all’Itis Ferraris di Marcianise. La stessa scuola di Gabriel, più grande di lui di appena sei mesi, che lo ha ucciso con una coltellata sabato notte, in una stradina piena zeppa di locali, nel cuore della movida casertana.
Grazie a Mary Liguori, una giornalista del Mattino, che si è presa la briga di andare a vedere dove vivesse a Caivano la famiglia di Gabriel, ad ascoltare gli insegnanti del ragazzo, e a provare così a ricostruire la vita di quello che da poche ore è un assassino, sappiamo che non era una testa calda, non aveva precedenti penali, non era uno da cui ti aspetti che da un momento all’altro scateni una rissa. Anzi, a scuola Gabriel è conosciuto come l’organizzatore di diverse iniziative per la legalità.
Ha ragione il sindaco di Caserta nella sua sofferta dichiarazione di domenica quando dice “stanotte due giovani vite sono state distrutte: la prima uccisa a freddo per una banale lite, la seconda rovinata per sempre a causa di un atto di stupida violenza, di cui si pentirà presto”.
Gabriel ha confessato dopo poche ore, non è riuscito a spiegare il suo gesto, è stato in grado di dire solo che “non pensava di aver colpito così forte”. Tra le lacrime.
In realtà il colpo di coltello, un comune coltello a serramanico che sembra essere molto in voga tra i ragazzi della movida come arma di autodifesa, inferto nella coscia di Gennaro ha provocato una emorragia violenta. Il ragazzo ha fatto alcuni passi prima di crollare a terra, ma solo quando è arrivato in ospedale si è capita la gravità della situazione. Per poi cessare di vivere dopo poche ore.
Gennaro era una promessa del pugilato italiano. Partecipava alle selezioni giovanili nazionali, era stato premiato di recente, ed è ricordato dal suo allenatore come un ragazzo modello. Ma il paradosso è che anche Gabriel è – era, fino a sabato notte – un bravo ragazzo. Proviene, racconta la Liguori, “da una famiglia benestante, mamma e papà giovani, una sorella modella. La sua è una famiglia affiatata, attentissima ai figli. Anche a scuola non riescono a spiegarsi cosa ha trasformato Gabriel in un assassino”.
È chiaro che il dolore della famiglia del ragazzo morto non è neanche lontanamente paragonabile alla tragedia che ha colpito la famiglia dell’assassino. Eppure questa storia ci insegna un sacco di cose. Intanto quanto siano stupide e prive di dignità le tesi sostenute nelle ore successive alla tragedia sui social. Tutti alla caccia dei responsabili. Tutti sicuri di sapere quali sono le soluzioni da adottare. Carlo Marino, il sindaco della città dove è avvenuta l’aggressione, lo dice apertamente: “provo invidia per le persone che sanno già dire di chi siano le responsabilità, cosa andrebbe fatto, quale sarebbe la soluzione – ovviamente semplice, a portata di mano – per impedire cose del genere. Noi dobbiamo reagire con dignità e con senso di comunità. Non rispondo alle sciocche strumentalizzazioni politiche di queste ore, miserie umane che lasciano veramente il tempo che trovano. Mi appello al bisogno profondo di libertà e sicurezza che anima la nostra comunità. Non ci sarà mai sicurezza per tutti se non sapremo essere rispettosi della libertà degli altri, che significa rispettare le regole”.
Ma le domande restano e dobbiamo provare a capire di più. C’è nella vita dei giovani del Sud qualcosa di inespresso, un disagio profondo, una incertezza che taglia trasversalmente ogni ceto sociale, ogni livello culturale, ogni orientamento politico. Da un lato cova tra i giovani una rabbia inespressa, la consapevolezza di essere nati nella parte sbagliata del paese, di partire con un numero troppo basso di chances rispetto agli altri coetanei. Dall’altra una voglia di reagire, di fare da soli, di competere con tutti i mezzi. È qui che che le coordinate di questi ragazzi si confondono. Tutto diventa – cose positive e cose negative – patrimonio indistinto di una comunità. C’è troppa attiguità tra un ragazzo per bene e un giovane che appartiene ad una banda criminale. C’è troppo poca azione della comunità a far vivere le differenze, a segnare le distanze, a valorizzare il rispetto delle regole e della legalità.
Colpisce che questa violenza giovanile venga esibita, esploda, durante quella che dovrebbe essere la parte ludica della loro vita. Molte città del Sud – è un fenomeno solo apparentemente simile a quelle di altre zone del paese – hanno costruito un lucroso modello di business sul divertimento, hanno trasformato interi centri storici in parchi a tema, amministratori e impresari hanno spinto oltre ogni misura sulla cosiddetta “movida”. Nulla possono i residenti, che non chiudono occhio. Nulla possono le forze dell’ordine, considerate poco gradite. Alcool e droghe hanno trovato così un facile mercato, senza limiti, a cielo aperto.
Possiamo tollerare tutto questo? Servono ragazzi morti ammazzati da coetanei per futili motivi per accendere un faro su questa situazione? Le famiglie non si sentono responsabili nel considerare tutto ciò che avviene, sotto il loro naso, un semplice divertente?
Gabriel è maggiorenne, per poche settimane. Deve affrontare il carcere duro. È ospitato nella casa penale di Santa Maria Capua Vedere, nel reparto detenuti per reati comuni. Non riesco a non pensare a questo stupido ragazzo, buffone e arrogante. Che ha pensato di regolare i conti con un coltello preso in prestito. E ora è rinchiuso in una cella affollata di detenuti veri. Come si fa adesso a trovare una soluzione a tutto questo? A fargli scontare la pena più dura possibile, nonostante il pentimento? Ma anche riammetterlo ad un certo punto nella società, consentirgli di recuperare una parte della sua vita, aiutarlo a reinserirsi. Ma soprattutto come si fa a far capire tutto questo ad una società che si è indurita, fino al punto di smarrire la propria coscienza, senza la quale non riuscirà mai più a distinguere il bene dal male?
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