Su consiglio di un amico ho da poco finito di leggere Fiore di roccia, un romanzo di Ilaria Tuti pubblicato da Longanesi nel maggio 2020 e dedicato alle portatrici carniche, quelle donne che durante la Grande guerra per oltre due anni trasportarono quasi quotidianamente, lungo i sentieri della Carnia, gerle cariche di rifornimenti e munizioni per i soldati italiani che combattevano nelle prime linee del fronte.
Faccio subito una breve premessa: questo splendido romanzo meriterebbe di essere letto per il solo fatto di aver riportato alla memoria, in modo potente e con una scrittura decisa e penetrante, una commovente pagina di sacrificio, coraggio e resilienza, una pagina della prima guerra mondiale purtroppo poco noto al grande pubblico e solo di rado raccontata nei manuali scolastici di storia contemporanea. Fatta questa premessa, confesso di aver trovato questo romanzo estremamente interessante e attuale anche per il tempo che ora siamo chiamati a vivere. Forse ha ragione Nick Hornby, autore del geniale Febbre a 90°, quando afferma che “tutti sappiamo che probabilmente le circostanze in cui si legge sono importanti quanto il libro stesso”: le parole che leggiamo, infatti, ci colpiscono perché, come dice Pavese, “risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi”. Queste righe non sono quindi una recensione di questo libro (cosa per cui sarei, certamente, fuori tempo massimo) ma il tentativo di mettere “nero su bianco” alcune considerazioni nate dalla lettura di queste pagine.
La protagonista è Agata Primus, una giovane donna orfana di madre, con un padre ormai prossimo alla morte e due fratelli disertori e passati dalla parte austriaca. La sua storia è frutto della creatività dell’autrice, mentre tutte le vicende che si dipanano intorno a lei sono realmente avvenute e la Tuti le ha ricostruite attraverso uno studio attento della documentazione storica disponibile. Agata vive a Timau, ultimo borgo prima di inerpicarsi su quelle cime della Carnia che hanno fatto da teatro alla logorante guerra di trincea, ed è una delle portatrici. Il suo percorso umano, così drammatico e intenso, è forse l’aspetto più attuale del romanzo perché la sua parabola non è così lontana da quella che ogni uomo si trova a vivere oggi.
L’assurdità della guerra e gli orrori delle trincee sono per lei il segno del silenzio di Dio: “Oh, mio Dio, è questo il tuo Uomo?” si chiede quando, appena giunta alle prime linee, osserva i soldati ricomporre i cadaveri dei militari morti. Forse è solo il caso che decide le sorti dell’uomo, il caso e la quantità di rame che si ha in corpo dopo un assalto: la durezza della guerra conduce Agata a questa conclusione. E quando apprende la notizia della costruzione di una cappella vicino alle trincee subito le balena alla mente questo pensiero: “C’è bisogno di Dio su queste cime. Ma io non riesco a scorgerlo tra le croci scure conficcate nel terreno. Nemmeno loro, così hanno pensato di erigerne un segno”. Su queste montagne “Dio è assente e l’uomo cerca come può di prendere il suo posto”. Ma questi lunghi e tremendi mesi di pandemia a chi, almeno in certi momenti, non sono parsi un’assordante silenzio di Dio, quasi una conferma della sua assenza proprio quando c’era il maggior bisogno del suo aiuto?
Per Agata l’assenza di Dio coincide con l’assenza di significato del dolore che le sta intorno. E l’assenza di significato diventa anche un’assenza di speranza. Agata però sceglie di restare fedele al compito assegnatole e continua a salire ogni mattina fino alle prima linea del fronte. Piccoli ma significativi fatti iniziano così ad incrinare questa coltre di disperazione. Il coraggio di Lucia che ogni mattina lascia i suoi quattro bambini per portare viveri nelle trincee nonostante il rischio di essere colpita dai cecchini nemici, la pazienza di don Nereo che non priva mai le portatrici del suo sostegno e l’amicizia con il capitano Colman, un militare capace di un sacrificio estremo per la vita dei suoi uomini, spingono Agata a compiere un gesto di carità tanto umano quanto, in tempo di guerra, pericoloso: salvare la vita e prendersi segretamente cura di un cecchino austriaco. Si compie un gesto di bontà solo se qualcun altro ci mostra che è possibile farlo, che è possibile seguire un’alternativa alla logica della guerra.
Il significato di questo gesto si palesa agli occhi della stessa ragazza proprio quando la situazione sembra precipitare: “Ho scelto di essere libera. Libera da questa guerra che altri hanno deciso per noi. Libera dalla gabbia di un confine che non ho tracciato io. Libera da un odio che non mi appartiene e dalla palude del sospetto. Quando tutto intorno a me era morte, io ho scelto la speranza”.
Libertà e speranza sono parole che abbiamo sentito riecheggiare tante volte in questi mesi e sono parole che non si possono comprendere in astratto, a livello teorico, perché acquisiscono consistenza solo quando si decide di non sottrarsi agli urti e alle circostanze della vita e di non mettere a tacere quelle esigenze e quei desideri che abitano l’animo umano. Solo in quel momento Agata vede, “finalmente, Dio”. Come Dio qui intervenga e quali sembianze assuma non si può raccontare, perché significherebbe anticipare ai lettori un tassello decisivo del romanzo; ma l’aspetto più interessante è che Dio si manifesta sempre attraverso gli esseri umani, attraverso un sacrificio che non si può spiegare se non nei termini di una immeritata e imprevedibile sovrabbondanza di amore. “Quando tutto intorno a me era morte, io ho scelto la speranza”: in fondo oggi, dopo aver visto che davvero tutto intorno a noi può essere morte, scegliere la speranza è il compito a cui siamo chiamati adesso se non vogliamo perdere l’ultima parola che chiude il romanzo: “Umanità”.
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