Un paesaggio lontano e selvatico, scrutato attraverso il finestrino di un treno che progressivamente incrementa la propria andatura. I contorni sempre più sfumati, indefiniti, inafferrabili. I dettagli svuotati di senso e di sostanza, inglobati da una varietà ormai indistinta, di cui non resta altro che una pallida scia di colore.
Se esistesse una metafora perfetta per descrivere i tratti salienti dell’uomo moderno, certamente quella del passeggero e del suo isolamento sul vagone che lo sta trasportando ben si presterebbe a tratteggiare la frenesia e lo smarrimento di cui quest’ultimo è quotidianamente vittima. Parabola esistenziale di una fusione mancata, di un dialogo sempre traballante tra artificio e natura, di uno sforzo titanico votato all’armonia ma spesso condannato all’inconcludenza, sarebbe probabilmente piaciuta a Thomas Stearns Eliot, capostipite di quel Modernismo primonovecentesco capace di scandagliare con chirurgica meticolosità l’animo di una civiltà precipitata sull’abisso delle proprie fondamenta sgretolate. La terra desolata (1922), d’altro canto, non è appena il manifesto di una generazione che, lasciandosi alle spalle l’inusitato dramma del primo conflitto mondiale, contempla i resti fumanti di ciò in cui ha sempre creduto, ma anche una confessione di impotenza, una preghiera sottovoce ad un futuro sordo, una presa di consapevolezza di come l’insoddisfazione e l’infelicità siano diventati i sentimenti dominanti della nostra epoca.
A ben guardare, in effetti, l’opera poetica di Eliot, suggellata dal sapiente cesello di Ezra Pound, sembra avere le fattezze di un cimitero finemente decorato, fatto di citazioni e di rimandi alla grande tradizione occidentale – da Sofocle a Dante, da Petronio a Baudelaire, dalle Sacre Scritture alla letteratura cavalleresca – rilette alla luce di una nuova, spiazzante realtà. È un mondo di frammenti e di segni talvolta impossibili da decodificare, quello che Eliot ci invita ad esplorare, armati solo dell’inesauribile desiderio di conoscere la fonte del nostro malessere.
In questo deserto dell’attesa, gesti e sguardi si ripetono con il grigiore di un rito ormai desueto, mentre leggende, miti e istanze di rinascita cedono il passo ad una prosaicità dai connotati sinistri. Eloquente, in questo senso, il quadro narrativo che l’autore dedica alla turba di passanti che si alterna anonimamente sul London Bridge: “Città irreale / sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno, / una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così / tanta, / ch’i’ non avrei mai creduto che morte tanta / n’avesse disfatta. / Sospiri, brevi e infrequenti, se ne esalavano, / e ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi. / Affluivano su per il colle e giù per la King William / Street / fino a dove Saint Mary Woolnoth segnava le ore / con morto suono sull’ultimo tocco delle nove”.
Utilizzando come sfondo un prodigio della tecnica e dell’ardire che sin dall’antichità qualifica l’ingegno umano – e illuminandolo trasversalmente attraverso un sottotesto infernale di matrice ancora una volta dantesca – Eliot scolpisce nel marmo della storia e della memoria il solenne epitaffio del XIX secolo, animato dalle illusioni e dalle tracotanze positiviste, nonché da una sconfinata fiducia nelle idee di progresso, di ordine, di socializzazione, di dominio materiale ed epistemologico dell’esistente. Scheggiando il monumento che era stato eretto da Walt Whitman, appassionato cantore della tecnologia e delle sue infinite combinazioni con il mondo naturale (basti pensare alla lirica “Attraversando il traghetto di Brookyln”, pubblicata nel 1856 all’interno della seconda edizione di Foglie d’erba), il poeta nativo di Saint Louis intona un controcanto decisivo, e tremendamente attuale. Perché se Whitman ha immolato sé stesso per dare voce alla melodia ammaliante e irretente di una sirena, Eliot ha fatto lo stesso con quella struggente e disperata di un cigno.
E proprio in quegli ammassi di cemento e vetro che tanto avevano acceso le fantasie ottocentesche, La terra desolata scorge il correlativo oggettivo di un sottile, ancorché tangibile, disagio. Nell’alternarsi soffocante dei grattacieli, nella pericolante sospensione del ponte che si dipana a perdita d’occhio, nella simmetria totalizzante che sempre più di frequente caratterizza le nostre città e i nostri spazi, si cela una profonda insofferenza per la modularità, per la ripetitività del fare, del dire e del pensare, che pian piano si esauriscono come una fiammella privata dell’ossigeno. Così, sembra dirci Eliot, anche il tempo ha smarrito il suo significato, ridotto ad una ciclicità lontana da quella foriera di continuo rinnovamento dei Greci ed espressione, piuttosto, di una trappola invisibile che ci relega all’anonimato e a quell’auto-straniamento tanto caro a Camus.
Ma anche tra le testimonianze rocciose di imponenti eruzioni passate, o sotto il lembo di sabbia più cocente, può insinuarsi il fragile fiore della vita. Sebbene il poemetto di Eliot, parafrasando Balzac, sia il più grande spaccato della tragedia umana e abbia tristemente profetizzato i mali insidiosi del nostro tempo, esiste comunque uno squarcio di incertezza a cui aggrapparci. In quella conclusione dai toni quasi mistici, in cui si attende con ansia uno scroscio di pioggia ristoratore, una nuova fortitudo spirituale, che possa sanare le ferite di una lunga ricerca infruttuosa, pare profilarsi all’orizzonte.
L’opera, tuttavia, non dona al proprio lettore il conforto di una risposta univoca. Lascia solo il dubbio che quell’evento miracoloso, in fondo, possa davvero verificarsi. Forse perché, come Godot, è meglio non scoprire la dura verità. O forse, semplicemente, perché una risposta univoca non esiste. E sta ad ognuno di noi, artefici del nostro senso di vuoto che gigantesche costruzioni ed improbabili surrogati non sono riusciti a placare, trovare il percorso più adatto per la felicità.
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