“Ricordo quando andai a Berlino la prima volta a incontrare il mio collega Schäuble. Prima della conferenza stampa mi disse: puoi usare tutte le parole che vuoi, ma dimenticati la parola eurobond. Per i tedeschi era tabù”. L’aneddoto, che è stato raccontato a Cernobbio dal ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, sembra fare il paio con quanto Mario Draghi avrebbe detto qualche giorno fa, come riportato da Repubblica, sull’intenzione di voler cambiare il Patto di stabilità, aspettando però l’esito delle elezioni tedesche. E la conferma di quanto il dopo-Merkel sia decisivo, arriva anche dalla Ue: l’Eurogruppo informale che si terrà domani in Slovenia non ha in programma alcuna discussione sul Patto di stabilità. Intanto il Patto è sospeso fino a tutto il 2022, ma i falchi del Nord Europa hanno già iniziato a volteggiare sopra i cieli di Francoforte, pronti a farsi sentire già nella riunione del board della Bce, in programma oggi. La partita, seppure sotto traccia, è già iniziata e per il nostro paese si preannuncia molto dura e complicata. Soprattutto – come sottolinea Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma – perché “più che dalle elezioni tedesche molto dipenderà dalla posizione negoziale iniziale che terrà l’Italia”.
Professore, innanzitutto, perché dobbiamo aspettare l’esito delle elezioni tedesche? C’è forse qualche speranza che i falchi del Nord, Germania in testa, accettino di mandare in pensione il Fiscal compact?
Premesso che dobbiamo avere conferma di questa affermazione, certamente l’addio della Merkel solleva una serie di interrogativi su quale sarà la politica economica futura della Germania. La Spd sta registrando negli ultimi mesi un rialzo nei sondaggi e oggi non possiamo del tutto escludere che dopo tanti anni il prossimo cancelliere sarà un socialdemocratico.
Questa possibilità cosa cambia?
C’è evidenza che la Spd, per quanto riguarda la politica fiscale, sia meno intransigente di quanto sia stato finora il blocco del Nord. Immagino quindi che Draghi si ponga in quest’ottica attendista proprio per capire fino a quanto possa spingere su una leva di politica fiscale diversa da quella dominante negli ultimi 10 anni. Ma questo da solo non basta.
Che cosa ci vorrebbe in più?
Indipendentemente da quello che succederà con il voto tedesco, dovremmo innanzitutto chiederci: a quel tavolo negoziale, dove si dovranno accettare diversi compromessi e dove sarà importante trovare delle alleanze, qual è la regola di politica fiscale, il punto di partenza con cui il nostro paese arriva alla trattativa?
Perché è così importante?
Continueremo a essere, come negli ultimi 15 anni, più realisti del re?
A chi o a che cosa sta pensando in particolare?
A quel che hanno fatto Monti e lo stesso Draghi. Cioè i nostri “gestori” della politica economica più prestigiosi non hanno approfittato di questa reputazione per chiedere al tavolo negoziale maggiori sconti in chiave di politica fiscale. Monti andò dalla Merkel, accolto a braccia aperte, e ritornò con una politica austera che lui stesso oggi riconosce essere stata sbagliata.
E Draghi?
Non può “intitolarsi” il Pnrr, che qualcuno giudica espansivo, perché a guardar bene i numeri è simile, se non più restrittivo, di quello ottenuto da Conte. Non solo: Draghi ha promesso alla Ue, un po’ clamorosamente, di portare il deficit italiano in un anno dal 12% del 2021 al 6%, il che significa 120 miliardi di aumenti di entrate e di riduzioni di spese, in un momento in cui l’economia avrebbe bisogno, per ripartire davvero, di un supporto alla domanda proveniente dal settore pubblico molto maggiore.
Insomma, serve più coraggio nel difendere quel “debito buono” a cui più volte ha fatto riferimento lo stesso Draghi?
Sì, serve un coraggio addizionale. Se è anche vero che la Germania, in caso di vittoria dei socialdemocratici, potrebbe essere disposta a concedere qualcosa in più, l’impatto di questa disponibilità dipende anche dalla nostra posizione negoziale iniziale. Se saremo come al solito timidi, timorosi e non convinti della bontà di una politica fiscale espansiva, non saremo capaci di approfittare di questa possibilità.
Prima accennava all’importanza di fare alleanze. Con chi?
Potremmo farlo con la Francia, con i paesi più in difficoltà, ma non mi pare che si stia navigando in quella direzione. Quindi mantengo tutto il mio scetticismo.
Il Pnrr non è sufficiente a tirarci fuori dalle secche?
No. Ricordiamoci che l’Italia è il paese che non solo rientrerà più tardi di tutti sui livelli pre-Covid, ma una volta fuori dal Covid saremo ancora con una produzione inferiore a quella di prima della crisi del 2008.
La Fed ha annunciato il suo piano di tapering. Questa decisione non dovrebbe affrettare i tempi di discussione e riscrittura del Patto di stabilità?
Non credo che alla fine gli americani saranno meno accomodanti. Le parole di Powell a Jackson Hole sono state sottilmente chiare: la Fed non guarda solo al tasso di occupazione, ma anche a quella che loro chiamano la “massima occupazione”, concetto che in Europa neppure abbiamo, che ridefinisce la disoccupazione tenendo conto di tutta una serie di fattori per cui la vera disoccupazione è molto più alta. E ciò lascia intendere che ancora per un bel po’ la Fed continuerà a essere espansiva. E fa bene, perché Biden sa bene qual è lo spettro che aleggia e contro cui deve combattere: il ritorno di Trump. Difficile immaginare che non metta in campo tutte le armi a disposizione.
E in Europa non c’è uno spettro in grado di far girare il vento?
Anche noi abbiamo una minaccia “alla Trump”: è la fine dell’Europa. Un rischio che purtroppo noi ci sentiamo follemente di correre, perché non siamo espansivi in politica monetaria, né in politica fiscale quanto gli americani, ignorando quanto questi due “cannoni” siano essenziali per aiutare le persone più deboli, che in caso di inazione si schiererebbero con i movimenti più anti-democratici e anti-europei. Una lotta per una politica fiscale più espansiva è una lotta per salvare l’Europa dallo spettro della separazione.
Intanto alla Bce tornano a soffiare sul fuoco i rigoristi. Già nel 2022 potrebbe partire una politica economica meno accomodante?
Peggio di così nel 2022 si muore. Comunque non ho mai pensato che il problema della Ue fosse la politica monetaria troppo restrittiva, se non quando c’era Trichet come governatore della Bce. L’unica cosa che può sbloccare il pessimismo diffuso in paesi come il nostro è l’attività economica tramite la domanda pubblica e ciò è impedito dalla politica fiscale.
Draghi deve temere di più Francoforte o Bruxelles?
Tra poco avremo a che vedere non solo con la Legge di bilancio 2022, ma anche con la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza e spero che Draghi e Franco possano portare al tavolo delle trattative l’idea che l’attuale maggior crescita, frutto più dell’allentamento del Covid che delle politiche fiscali, non sia utilizzata per mettere ancora prima i conti pubblici in ordine, come chiede qualche falco, ma per rilanciare con maggior forza gli investimenti pubblici, di cui l’Italia ha un bisogno incredibile, e di portare il deficit non al 6%, ma almeno al 9%. Una riduzione compatibile con le preoccupazioni tedesche e del Nord Europa, ma nel contempo capace di garantirci più ossigeno per recuperare i nostri mostruosi gap di performance economica.
(Marco Biscella)
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