L’evento organizzato annualmente a Cernobbio da parte della società di consulenza Ambrosetti è sempre portatore di stimoli e informazioni importanti per il mondo economico e del lavoro italiano. In tal senso diverse testate hanno riportato delle brevi estrapolazioni dell’intervento del ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, una delle quali ci sollecita ad una riflessione in risposta dello stesso.
Il ministro ha affermato che “Chi ci aiuterà a risolvere i tavoli di crisi merita più incentivi di altri che desiderano evitare fastidi e confusioni sindacali e vanno a investire in qualche terreno vergine. Questo significa fare politica industriale. Noi – ha aggiunto – ci stiamo impegnando per cambiare. Vogliamo cercare di ricostruire un sistema di incentivi e di sussidi che servono, e in particolare in questa fase”.
Premesso che le estrapolazioni non ci consentono di contestualizzare perfettamente il tema trattato e quindi non ci soffermiamo sulla definizione di “confusioni sindacali”, però sulla questione dei tavoli di crisi e delle loro possibili soluzioni ci sentiamo parte in causa per diversi motivi.
La vicenda dei tavoli di crisi presso il Mise, oltre ad essere complessa, ha diverse sfaccettature. Se il sindacato può rivendicare un merito è certamente quello che l’attenzione sulle crisi la si ha grazie alle sollecitazioni e alla presenza del sindacato stesso, di categoria e confederale, nazionale e territoriale. Il sindacato spesso è l’unico che fa pressione e chiede con insistenza che si discuta con le imprese affinché si trovino soluzioni per evitare chiusure di aziende.
I percorsi non sono mai brevi né tantomeno semplici, tuttavia se non ci fosse il sindacato, probabilmente non ci sarebbero tutti questi tavoli di crisi, poiché la gran parte delle imprese avrebbe chiuso da un giorno all’altro. Per evitare chiusure affrettate, con gravi ricadute sociali, il sindacato negli ultimi anni ha potuto contare quasi esclusivamente sull’egregio lavoro dell’Unità di crisi del Mise.
La task force del Mise, tuttavia, oltre ad essere perennemente sotto organico, è stata depauperata di competenze certe, che sono state sostituite da amici di partito, proprio dal primo governo giallo-verde. Il ministro potrebbe controllare i rapporti annuali che faceva la stessa Unità di crisi, dove, oltre a fare il quadro dei risultati ottenuti, si evidenziavano alcune debolezze della stessa. Andando indietro nella memoria si possono ricordare il fatto che spesso le crisi arrivavano al Mise quando non c’erano quasi più soluzioni e la questione della mancanza di poteri dell’Unità di crisi, forte solo di una moral suasion fondata proprio sulla credibilità dei responsabili. Il sindacato da anni chiede l’avvio di un tavolo di coordinamento, non per fare semplicemente il punto delle crisi, bensì per poterle possibilmente prevenire o almeno farle arrivare al Mise quando sono ancora in parte gestibili. La ramificazione del sindacato sul territorio, attraverso specialmente le federazioni di categoria, consentirebbe un lavoro preventivo di grande aiuto alle potenziali soluzioni delle crisi.
Sempre relativamente alla questione delle crisi industriali è importante che la proposta di legge che, rifacendosi all’esperienza francese, prevede degli obblighi e penalità per le imprese che decidono di chiudere gli impianti e magari delocalizzare, sia ben contestualizzata rispetto all’ecosistema industriale italiano. Altrimenti si corre il rischio di creare un ulteriore spauracchio, che magari non funzionerà mai, ma verrà agitato come un totem dalle imprese, insieme alla lentezza della giustizia civile e della farraginosità del nostro mercato del lavoro. Occorre impegnarsi per creare condizioni favorevoli agli investimenti; senza per questo dare agevolazioni che non richiedano impegni alle imprese rispetto alla loro permanenza e al rispetto della contrattazione.
Da questo punto di vista purtroppo il ruolo della Pa non è stato sempre brillante. Sui tavoli di crisi gli enti territoriali spesso non hanno carte da giocare o si limitano a promettere fondi per la formazione, che spesso non coincidono con i tempi della crisi, o, come è stato evidenziato negli ultimi giorni dal ritorno in prima pagina delle vicende dello stabilimento di Termini Imerese, la selezione delle proposte che giungono lascia molto a desiderare.
Spinti anche dalle indicazioni dell’Unione europea, e in particolare dal Green Deal, si dovrebbero favorire soluzioni che colleghino l’uscita dalla crisi incentivando coloro che investono sui prodotti green e nuove tecnologie sostenibili, favorendo quella transizione ecologica ed energetica del nostro sistema industriale che viene sempre richiamata nelle occasioni di dibattito, magari con l’istituzione di un fondo ad hoc proprio per le situazioni di crisi.
Occorre anche valorizzare istituti come il workers buy out, dove almeno per alcune parti delle aziende, la costituzione di una impresa cooperativa partecipata dagli stessi lavoratori può essere una modalità che salvaguardia le professionalità presenti oltreché l’occupazione.
Come sindacato diciamo che non dobbiamo tralasciare alcuna possibilità nel tentativo di uscire da una situazione di crisi imprenditoriale.
I tavoli di crisi al Mise hanno spesso un andamento carsico, riemergono in coincidenza dello scadere degli ammortizzatori sociali concessi. Nonostante tutto, il sindacato mantiene sempre alta l’attenzione, perché non dimentica che al centro ci sono le persone, lavoratrici e lavoratori, a cui interessa la soluzione dei problemi, non tanto le procedure burocratiche che li vedono soggetti passivi.
Valorizzare il supporto del sindacato, il suo profondo legame con il territorio e con le maestranze, sarebbe importante per garantire il successo di quanto ipotizzato dal ministro, perché gli incentivi finanziari non sono mai l’unico motivo che porta le imprese a investire o a mantenere i propri impianti sul territorio.