Il direttore de Il Quotidiano del Sud, Roberto Napoletano, in un suo recente intervento ha sottolineato come “Un Paese come l’Italia se non ha un forte mercato interno non potrà mai avere una crescita importante”. E’ una riflessione che ripropone un interrogativo: il Mezzogiorno d’Italia può rappresentare una soluzione per la nostra economia?
L’analisi storica dell’intervento nel Mezzogiorno ha evidenziato come il divario Nord-Sud esistente al momento dell’Unità si sia ampliato a danno del Sud per effetto dell’incoerenza tra unità politica e mancata unificazione economica (una similitudine con l’attuale situazione dell’Unione europea). Solo con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno si realizza una convergenza dell’economia meridionale rispetto alle medie nazionali e il divario Nord-Sud scende, infatti, di 19 punti: dal 53% del 1951 al 34% del 1974.
I risultati positivi furono possibili perché, seppur solo per un breve periodo, si realizzò una convergenza tra sviluppo locale e industrializzazione, innescando un circolo virtuoso che dall’economia ha esteso i suoi benefici alla società. Il momento favorevole è cessato con la chiusura dell’intervento straordinario e con la riforma del Titolo V che ha cancellato dalla Costituzione il riferimento al Mezzogiorno.
È su questo substrato che si innesta la domanda su quanto sia importante per l’interesse nazionale recuperare il ruolo attivo del Mezzogiorno. Il Governo ha approvato lo scorso 2 settembre il decreto che dovrebbe agevolare gli investimenti in infrastrutture, aspetto determinante ai fini della ripresa sociale ed economica. Il decreto ridefinisce la procedura da seguire nell’orientare le risorse finanziarie (4,6 miliardi) destinate a ridurre le disuguaglianze territoriali in termini di dotazione infrastrutturale, offrendo sostegno alla capacità progettuale dei Comuni e delle Regioni meridionali.
L’aspetto importante del Decreto è il piano di «perequazione infrastrutturale» per il Sud, previsto già nel 2009 e mai decollato, che vale 4,6 miliardi in 12 anni (dal 2022 al 2033). Il decreto vuole ridurre al minimo la fase di elaborazione degli indici territoriali in forza dei quali il ministero delle Infrastrutture, entro novembre 2021, e poi il Mef, entro marzo 2022, dovranno procedere all’approvazione di un piano di ripartizione delle risorse. Il timing si completa con la calendarizzazione, e speriamo non sia solo una previsione, secondo cui nei trenta giorni successivi, i singoli ministeri dovranno presentare l’elenco di interventi “infrastrutturali” aggiuntivi, cioè non ancora finanziati da altre leggi o piani. Ad aprile 2022 dovrebbe, dunque, decollare un piano Sud aggiuntivo capace di intervenire su scuole, assistenza sanitaria, strade e autostrade, ferrovie, porti e aeroporti.
Il decreto pare andare nella direzione delineata da Joseph Stiglitz al Forum Ambrosetti di Cernobbio, il quale ha sottolineato che l’aumento dell’indebitamento sovrano potrebbe non costituire un problema se il ritorno previsto sugli investimenti pubblici è alto come negli Stati Uniti.
In sostanza, se gli investimenti in infrastrutture, ricerca o educazione sono amministrati bene, il Pil sale. La spinta deve venire dalla creazione di un circolo virtuoso che deve condurre i tanti cervelli italiani che popolano le università – alcune nostre continuano ad essere a numero chiuso – in Gran Bretagna o negli Usa a rientrare. In questo contesto non è secondario arrestare l’emigrazione interna al nostro Paese, creando sviluppo al Sud.
A questo proposito viene spontaneo domandarsi: che fine ha fatto l’attivismo dei presidenti di Regione che ha caratterizzato la fase emergenziale e solo marginalmente attenta alla ricostruzione del Paese compromesso, ulteriormente, dai lockdown?
Il presidente del Veneto. Luca Zaia, a novembre dichiarò di aver già predisposto un elenco di interventi per quasi 25 miliardi di euro in vista della liquidazione all’Italia delle risorse del Recovery fund, con ciò rispolverando la questione dell’autonomia e del federalismo. Il Mezzogiorno è stato alla finestra almeno fino alla dichiarazione del presidente della Regione Campania che propose, sempre a novembre, un tavolo di confronto agli altri presidenti di Regione del Meridione.
I risultati del confronto non sono noti e la prossima tornata elettorale rischia di essere l’ennesima occasione per cui l’attivismo si traduce in mera richiesta di sussidi che andranno ad alimentare orticelli elettorali. Un contributo dovranno darlo le organizzazioni imprenditoriali locali, che dovranno proporre interventi in grado di porre all’attenzione della classe politica i bisogni delle imprese del Meridione.
Ad aprile, l’economista Lucrezia Reichlin ha usato parole critiche verso le “Zone economiche speciali”. È parso un richiamo utile, ma caduto nel vuoto. La normativa delle Zes va rivista in profondità se le si vuol fare “ripartire” con chance di successo e la loro riforma va allargata al riordino delle Aree di sviluppo industriale, che nel tempo si sono caratterizzate per essere un centro di potere e, dunque, come ostacolo per le aziende.
Vale la pena riformulare una raccomandazione al ministro Carfagna: effettui un veloce censimento delle opere pubbliche ferme, in alcuni casi da anni, per riprendere subito, seguendo il “modello Genova”, quelle che hanno ancora una valenza per diffondere sviluppo sul territorio meridionale.