Nelle intenzioni del ministro del lavoro Orlando la proposta di riforma degli ammortizzatori sociali e il programma Gol per le nuove politiche attive dovrebbero rappresentare la piattaforma delle politiche del lavoro funzionali a rendere sostenibile l’impatto sulle attività produttive e sul mercato del lavoro delle trasformazioni tecnologiche attese nei prossimi anni.
La riforma degli ammortizzatori punta all’estensione universale delle casse integrazioni, con criteri differenziati per settori e per numero dei dipendenti delle unità produttive, per far fronte alle sospensioni temporanee delle attività o alla chiusura delle imprese. Inoltre, propone di allungare la durata dell’utilizzo delle indennità di disoccupazione (Naspi e Discoll), di aumentare gli importi mensili e di ridurre la quota dei contributi versati per accedere alle prestazioni.
Con il programma Gol (Garanzia occupabilità lavoratori) si vuole cogliere l’obiettivo di ampliare la platea degli interventi (servizi per l’impiego, formazione, sostegni per l’inserimento lavorativo) per rendere sostenibili le transizioni lavorative delle persone che perdono il lavoro e per agevolare l’inserimento lavorativo di quelle che lo cercano per la prima volta.
Quella per i sostegni al reddito potrebbe essere definita come una sorta di “controriforma” della precedente approvata con il governo Renzi nel 2014 in uscita dalla lunga crisi economica iniziata nel 2008, e per mettere la parola fine all’utilizzo massiccio delle casse integrazioni in deroga messo in campo per contenere i licenziamenti.
Per questa finalità sono state riviste le causali delle casse integrazioni, escludendo la possibilità di utilizzarle nel caso di cessata attività delle aziende, e prevista la possibilità di ampliare le forme per integrare il reddito dei lavoratori nel caso di riduzione temporanea delle attività nei settori non coperti dalla Cig ordinaria. Per lo scopo sono stati costituiti, per i settori interessati e per le aziende con più di 5 dipendenti, i Fondi di Solidarietà, auto finanziati dalle imprese e dai lavoratori.
La durata delle nuove indennità di disoccupazione per i lavoratori dipendenti (Naspi), al netto delle proroghe disposte nel periodo Covid, rimane tuttora ancorata ai periodi di lavoro pregressi, e gli importi subiscono delle decurtazioni graduali, a partire dal 4° mese, per incentivare la ricerca di un nuovo lavoro da parte dei beneficiari.
La riforma proposta dal ministro Orlando muove nella direzione opposta: generalizzare l’utilizzo delle casse integrazioni per tutti settori, a prescindere dal numero dei dipendenti, lavoratori domestici compresi; estendere le causali di utilizzo anche alle chiusure aziendali, comprese quelle semplicemente prospettate; ridurre il numero dei contributi versati per accedere alle indennità di disoccupazione, aumentando gli importi e la durata delle prestazioni. Con la promessa di trasferire allo Stato gli oneri aggiuntivi per i primi tre anni di gestione (circa 8 miliardi).
In pratica, l’estensione in via ordinaria del modello delle casse integrazioni in deroga, utilizzato per far fronte alle fermate produttive disposte dalle autorità nel corso della crisi Covid.
Possiamo immaginare quali possono essere le conseguenze nei settori caratterizzati da un’elevata componente di lavoro stagionale, da una intensa mobilità del lavoro, da rapporti di tipo fiduciario come nel caso del lavoro domestico. Le nuove casse integrazioni si sommerebbero alle indennità di disoccupazione da utilizzare dopo la risoluzione del rapporto di lavoro, per mantenere in vita posti di lavoro economicamente non sostenibili, e trasferendo gli oneri a carico dello Stato, in settori caratterizzati da centinaia di migliaia di micro imprese e da larghe quote di lavoro sommerso.
Pensare di rigenerare le politiche attive del lavoro (Pal) in un contesto del genere equivale a costruire un edificio su un terreno che sta franando.
Al nuovo programma Gol viene affidato il compito, tramite i Centri pubblici per l’impiego (Cpi), di prendere in carico entro il 2025, 3 milioni di disoccupati (cassintegrati, persone in cerca di lavoro, donne, anziani, Neet, percettori di Rdc, soggetti vulnerabili), per indirizzarli, previa verifica delle caratteristiche delle persone, in cinque diversi percorsi (inserimento lavorativo immediato, aggiornamento o riqualificazione delle competenze, destinazione a percorsi sociali di accompagnamento, programmi di inserimento collettivo). Con l’ulteriore obiettivo di avviarne 800mila verso corsi di formazione e 135mila in progetti integrati di formazione e lavoro.
Un modello di gestione delle Pal già utilizzato per i programmi Garanzia Giovani e Reddito di cittadinanza, tuttora vigenti. Modello che potrebbe essere assimilato alla costruzione di un edificio costoso (i 5 miliardi del Pnrr ), con un architetto (lo Stato) che fa finta di progettare un disegno unitario che gli esecutori (le Regioni che hanno la competenza sulle Pal) possono attuare a loro discrezione, con strumenti da costruire in corso d’opera (le ennesime banche dati sui beneficiari delle politiche attive e per l’incontro domanda e offerta di lavoro), affidate a risorse umane non ancora disponibili e comunque da formare (le 9.500 mancate assunzioni per i Cpi).
La sua riproposizione, data la comprovata carenza delle Pal, non è la conferma della sua validità, ma la premessa per ulteriori fallimenti.
Il frutto di un approccio politico e culturale inadeguato, e della pretesa di affidare a singoli progetti, per quanto rilevanti, la risoluzione di problemi che richiedono un approccio di tipo sistemico. Le politiche attive del lavoro efficaci, dove funzionano, fanno leva su due pilastri. Il primo è rappresentato da quelle finalizzate ad incrementare l’occupabilità delle persone in un’ottica di medio e lungo periodo, con investimenti ed interventi volti a migliorare la qualità dei percorsi educativi, scolastici e formativi per integrarli con quelli lavorativi, e per valorizzare esperienze lavorative svolte con l’apprendimento continuo. Un approccio complesso e che, per definizione, richiede il coinvolgimento di una pluralità di soggetti istituzionali e privati.
Il secondo pilastro è rappresentato dagli interventi finalizzati a migliorare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro per soddisfare fabbisogni immediati del sistema produttivo e per favorire l’inserimento lavorativo delle persone in difficoltà con interventi personalizzati. E’ la domanda di lavoro che orienta i percorsi ragionevoli di inserimento lavorativo, non l’analisi burocratica fatta a tavolino dai funzionari dei Centri pubblici per l’impiego.
Questo spiega, ad esempio, perché è più elevato il tasso di intermediazione svolto dalle Agenzie private, che selezionano il personale sulla base dei fabbisogni delle aziende, rispetto a quello del tutto marginale svolto dai servizi pubblici per l’impiego. Un tema che dovrebbe essere preso di petto dalle istituzioni e dalle parti sociali per riscontrare in ambito locale la domanda di lavoro, qualificato e non, che non trova corrispondenza nell’offerta di lavoro.
Nessuna persona di buon senso può pretendere che queste criticità possano essere risolte in tempi brevi. Ma paradossalmente questa è la promessa che accompagna il varo del Gol. Un programma privo di una governance adeguata, che affronta in modo improprio, affidandolo ai Centri per l’impiego, il tema di accrescere l’occupabilità delle persone, nonché inefficiente per la gestione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Destinato in tempi brevi a diventare un… autoGol.
Mi sono chiesto più volte il perché, nonostante i comprovati fallimenti di queste politiche, i governanti di turno continuino a proporre le stesse ricette senza riscontrare particolari opposizioni. Nella condizione attuale ritengo che tutto ciò avvenga perché promettere sussidi pubblici per acquisire il consenso è diventata ormai una prassi condivisa dal complesso delle forze politiche.
Le associazioni imprenditoriali la assecondano per favorire l’uscita dal blocco dei licenziamenti, a condizione che gli oneri vengano assunti dallo Stato. Salvo lamentarsi a posteriori che i beneficiari dei sostegni al reddito preferiscono mantenere l’assegno pubblico anziché accettare le nuove offerte di lavoro.
Le organizzazioni sindacali si dichiarano soddisfatte perché viene allungata la durata dei sostegni al reddito, convinti che questo sia il modo giusto per difendere i posti di lavoro.
Gestire in queste condizioni la mobilità del lavoro che si prospetta per milioni di persone nei prossimi anni è davvero arduo.