Un film con sequenze d’azione mai viste prima in un titolo Marvel e una particolare attenzione verso le dinamiche tra i suoi protagonisti. Non è il più rivoluzionario tra i film della saga, ma il tentativo di innovare ha ampiamente pagato.
In questo periodo di riapertura delle sale, costellato da flop e mezzi successi, Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli, venticinquesimo capitolo dell’epopea Marvel, ha debuttato sul grande schermo con numeri che han superato le più rosee aspettative. I più smaliziati potrebbero sostenere che sia puramente merito del brand, ma questo cinecomic in salsa orientale nasconde non poche sorprese.
Dietro a Shaun (Simu Liu), ragazzo apparentemente di poche ambizioni, si nasconde Shang-Chi, esperto di arti marziali e figlio dello spietato Xu Wenwu (Tony Leung), signore della guerra reso immortale da degli artefatti chiamati “i Dieci Anelli”. Quando il passato bussa alla sua porta Shang-Chi si lancia con la sua amica Katy (Awkwafina) alla ricerca del misterioso villaggio di Ta Lo, per prevenirne la distruzione da parte del padre e scoprire le origini della madre (Fala Chen) da tempo scomparsa.
Già a partire dalla sua premessa Shang-Chi si presenta come un film di contrasti: il film si apre su una San Francisco luminosa e moderna, dove il protagonista e la sua spalla conducono un’esistenza spensierata su cui gravano le aspettative di amici e parenti. Le sequenze che li introducono rivelano subito come il film sia diretto a un pubblico di giovani, mettendo in mostra le loro paure e aspettative con particolare riferimento alla comunità asiatico-americana. Affrontare un’eredità in cui non ci si riconosce del tutto è il tema portante della pellicola, ed emerge con sempre maggior forza man mano che ci si sposta dalle metropoli alle ambientazioni di stampo più fantastico associate al genere wuxia.
Nella recensione di qualsiasi altro cinecomic sarebbe arrivato il momento di parlare dell’azione, ma nel caso di Shang-Chi è necessario esplorare prima i protagonisti per comprendere i combattimenti. La trama ruota attorno a un conflitto familiare che si inserisce nel solco dei melodrammi cinesi e coreani, sviluppandosi attorno all’antagonista interpretato da Tony Leung: l’attore hongkongese interpreta con eleganza un conquistatore immerso in una crisi di identità che va avanti da secoli, intenzionato a riprendersi con ogni mezzo l’unica cosa che dava un senso alla sua vita. Ciò che rende davvero inquietante questo villain altrimenti ragionevole sono i segni che ha lasciato sui figli: Shang-Chi, addestrato fin da giovanissimo alla violenza e alla vendetta, è fuggito dal suo passato, mentre la sorella Xu Xialing (Meng’er Zhang), vissuta all’ombra del fratello, è diventata una donna cinica e rancorosa. A portare un po’ di leggerezza in questo triangolo di traumi familiari, scaturito dalla scomparsa della madre, è il personaggio di Awkwafina, che con la sua esuberanza eccede il suo ruolo di spalla comica e diventa un necessario complemento al più posato protagonista.
Passato e presente, dovere e libertà: le due anime del film si presentano anche nelle sequenze più movimentate, che si ispirano sì al sopracitato wuxia, caratterizzato da acrobazie e volteggi privi di peso, ma anche ai film di Jackie Chan, da cui prende l’energia e la commedia fisica. Tuttavia non sono solo le splendide coreografie a distinguere la pellicola da altri titoli simili, ma la cura e il ragionamento che vi è dietro: l’obiettivo è sempre ben definito, e la posta in gioco si alza vertiginosamente nel corso di ogni scontro, con intento comico o drammatico a seconda della sequenza. Sopra a ogni altra cosa, Shang-Chi è un film che non tratta l’azione come un intermezzo necessario alla “vera” trama, bensì come parte integrante della narrazione: il combattimento incarna i rapporti tra i personaggi e ne mostra l’evoluzione, specie nelle fasi finali, dove Shang-Chi mostra di aver affrontato e interiorizzato il proprio retaggio incorporando le tecniche delle sue due figure di riferimento, pugno chiuso e mano aperta, determinazione e comprensione.
Il film non è esente da difetti: per quanto sfaccettato e combattuto, lo Xu Wenwu di Tony Leung agisce spesso in una maniera che non si confa a un uomo razionale, figuriamoci a uno pluricentenario, e si ha l’impressione che le peripezie dei buoni si sarebbero potuti evitare con una semplice conversazione tra adulti. Nella seconda parte le due coprotagoniste Katy e Xialing vanno incontro a degli archi narrativi che risultano piuttosto frettolosi, e l’avversario finale, per quanto spettacolare, non funziona del tutto in quanto il cuore emotivo del film si risolve prima ancora che esso si palesi. Per quanto la pellicola dosi con saggezza i suoi riferimenti al resto dell’universo Marvel, con richiami ai film di Iron Man in cui era stata introdotta l’associazione dei Dieci Anelli e una scena mid-credits di fondamentale importanza, il peso dei precedenti ventiquattro film si avverte: il villaggio di Ta Lo è l’ennesima civiltà super avanzata e inaccessibile che guarda caso non è mai saltata fuori durante le precedenti calamità di dimensioni cosmiche, e presto se ne aggiungerà un’altra con Gli Eterni.
In conclusione, Shang-Chi è un film che riesce nell’intento di distinguersi, grazie a combattimenti dalle soluzioni originali e buoni spunti di trama, oltre che con soluzioni dal forte impatto visivo. Nonostante non raggiunga le vette di un Guardiani della Galassia, è consigliabile sia per gli appassionati del Marvel Cinematic Universe – in cui il protagonista della pellicola giocherà un ruolo di rilievo -, sia per coloro che si stanno stancando della sua formula, in quanto potrebbero uscire dalla sala stupiti.
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