“L’uccisione del capo dell’Isis nel Sahel è un colpo paragonabile, pur con le dovute differenze, alla morte di al-Baghdadi e Osama bin Laden” ci ha detto in questa intervista Marco Di Liddo, responsabile dell’Area Geopolitica e analista responsabile del Desk Africa e del Desk Russia e Balcani del Cesi (Centro Studi Internazionali). Il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato la notizia su twitter: “Adnan Abou Walid al-Sahrawi è stato neutralizzato”. “Un grande colpo, quello francese, anche se non significa certamente che la guerra al terrorismo nel Sahel sia finita”, ci ha detto ancora, “ma al-Sahrawi con la sua esperienza militare ultradecennale era stato in grado di assumere un ruolo autorevole di leader che non sarà facile rimpiazzare”. Dal Fronte Polisario ad al Qaeda fino allo Stato islamico, al-Sahrawi era considerato la mente della maggior parte degli attentati nella cosiddetta area dei tre confini, tra Mali, Niger e Burkina Faso.
Quanto conta realmente l’uccisione di al-Sahrawi? Siamo ormai abituati al fatto che, quando viene ucciso un leader islamista, ce n’è uno pronto a sostituirlo quasi immediatamente. Anche in questo caso?
Questa considerazione è vera, se analizziamo lo scenario della militanza jihadista transnazionale nel suo insieme. Se invece ci focalizziamo sul Sahel, la considerazione cambia leggermente.
Perché?
Perché nel Sahel esiste una militanza costruita su legami interpersonali e sulla capacità di singoli comandanti particolarmente abili nel costruire relazioni e rapporti con le singole realtà tribali del posto. Questo è un elemento peculiare del Sahel, dove c’è un ruolo molto importante da parte dei singoli.
Nel dettaglio, quale ruolo aveva al-Sahrawi in Africa occidentale?
La morte di al-Sahrawi può essere un colpo profondo per lo Stato islamico del Grande Sahara. Al-Sahrawi era un combattente con diversi decenni di esperienza, era uno dei principali referenti dell’omonima etnia che porta il suo nome, in quanto inizialmente membro del Fronte Polisario, l’organizzazione militare per la liberazione del Sahara Occidentale, poi per anni membro di al Qaeda nel Maghreb islamico. Era quindi un uomo che prima di staccarsi dal network qaedista ed entrare in quello del Daesh era rispettato e conosciuto e aveva un enorme background tecnico.
Quindi un colpo importante?
Sì, perché lo Stato islamico della provincia del Sahel deve adesso trovare un leader alla sua altezza e non sarà facile.
Dal punto di vista francese, paese che negli ultimi mesi si è parzialmente ritirato dal Sahel, che importanza ha questa eliminazione? Significa che la Francia è ancora attiva e ben presente?
È un colpo di assoluto prestigio. Facendo un paragone con altri paesi, la morte di al-Sahrawi per la Francia vale come la morte di al Baghdadi e di bin Laden per gli Usa, sebbene con le dovute proporzioni. La Francia è molto più impegnata nel contrasto al terrorismo nel Sahel, è il suo fronte principale. Uccidere questa persona vuol dire eliminare un elemento di enorme peso. Detto questo, la guerra non è finita per niente. Come abbiamo imparato da quando esiste il terrorismo jihadista transnazionale, parliamo di organizzazioni che trovano con relativa velocità nuove leadership, perché i network e i legami sociali su cui poggiano sono sedimentati. Fino a quando non colpiamo quei legami, i network non cadranno mai.
Esiste un collegamento fra le varie province dell’Isis? Quella afghana, ad esempio, che sta rialzando la testa…
Ben pochi collegamenti.
Ma esiste il pericolo che l’Isis si renda di nuovo pericolosa per l’Occidente?
Una volta eravamo abituati a misurare i trend di crescita o di decrescita del terrorismo in maniera globale. Come se fossero un fronte unico. Oggi siamo invece nella parcellizzazione dei fronti: può accadere che lo Stato islamico in una determinata area geografica, come la Siria e l’Iraq, sia in crisi, e contemporaneamente in un’altra area l’organizzazione del ramo locale sia in crescita. Quindi può accadere che colpiamo in maniera decisiva Isis in Siria e contemporaneamente Isis nel Sahel o nel Mozambico cresce e diventa più forte. La morte di al-Sahrawi pertanto non va a influenzare tutta la dinamica dell’Isis a livello globale.
(Paolo Vites)
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