Nel corso dell’ultima settimana gli occhi dei mercati sono stati puntati sul dato relativo all’inflazione Usa, di fondamentale importanza per le indicazioni che poteva fornire sui prossimi passi della Federal Reserve, ma anche della Bce, le cui decisioni di politica monetaria non possono prescindere da quelle della banca statunitense.
Ovviamente la Fed non si basa, per le sue decisioni di politica monetaria, solo sull’andamento dell’inflazione – il mercato del lavoro è un altro osservato speciale -, ma la crescita dei prezzi è sicuramente l’argomento caldo in questa fase del ciclo economico e quello che più di ogni altro può sospingere la banca centrale Usa verso una politica monetaria meno rilassata dell’attuale. Questa eventualità ha il potere di destabilizzare le Borse, le quali sono ormai da mesi alla ricerca di indizi sulla tempistica di intervento delle banche centrali.
Il dato sull’inflazione appena uscito non è tuttavia servito a chiarire il quadro, gli effetti sui mercati sono stati infatti abbastanza ridotti. A meno che non si voglia leggere la mancanza di reazioni come un effetto positivo: il timore infatti era che un dato superiore alle attese causasse forti discese.
Il Dipartimento del Lavoro Usa ha invece comunicato che nel mese di agosto l’indice grezzo dei prezzi al consumo è cresciuto dello 0,3% rispetto a luglio, risultando inferiore alle attese (+0,4%) e alla rilevazione precedente (+0,5%). Su base annuale l’indice si è attestato al +5,3%, inferiore alla lettura di luglio (+5,4%), ma pari al consensus. L’indice Core (esclusi energetici e alimentari) è cresciuto dello 0,1% rispetto al mese precedente (consensus +0,3%). Su base annuale l’indice è salito del 4% risultando inferiore alla rilevazione precedente e alle attese fissate su un indice del 4,3% e del 4,2%.
Il dato, inferiore alle attese, potrebbe indurre la Banca centrale Usa a ritardare l’avvio del “tapering”, la riduzione degli stimoli monetari attuati tramite l’acquisto di obbligazioni.
Il dibattito resta comunque concentrato sulla natura dell’aumento dei prezzi al consumo: si tratta di un fenomeno temporaneo, destinato ad essere riassorbito in tempi brevi, come ha spesso sostenuto il capo della Federal Reserve, Jerome Powell, oppure esiste il rischio che si tratti di una crescita duratura, che deve quindi essere combattuta sul nascere?
Uno studio della Fed di New York ipotizza che i prezzi al consumo negli Usa possano stabilizzarsi, quest’anno e i due successivi, ai massimi dal 2013, uno scenario che, se si verificasse, farebbe perdere concretezza all’ipotesi che l’aumento dei prezzi sia solo un fenomeno temporaneo.
Il presidente della Fed di Philadelphia, Patrik Harker, parlando al quotidiano giapponese Nikkei, ha dichiarato di essere in favore dell’inizio del “tapering” prima piuttosto che poi. Una volta iniziata la riduzione di asset, probabilmente già entro l’anno (il prossimo meeting Fed sarà il 21 e 22 settembre) dovrebbero volerci tra gli 8 e i 12 mesi per concludere il processo.
Secondo il Wall Street Journal, attualmente all’interno della Fed si cerca un accordo per iniziare a tagliare gli acquisti di bond da novembre, dal momento che l’incremento dell’inflazione potrebbe non essere, come già accennato, solo temporaneo.
A proposito di andamento dell’inflazione nei prossimi mesi, le ultime notizie provenienti dal fronte del petrolio potrebbero servire a stemperare un poco le tensioni.
L’Opec ha tagliato, infatti, le stime per la domanda mondiale di greggio nell’ultimo trimestre di quest’anno, a seguito della diffusione della variante Delta del Covid-19. In attesa che nel 2022 il consumo torni a superare i livelli pre-pandemia, la domanda di greggio potrebbe stabilizzarsi in media vicino ai 99,70 milioni di barili al giorno nel quarto trimestre del 2021, 110.000 barili in meno rispetto a quanto ipotizzato in precedenza.
Le attese sull’inflazione sono al rialzo non solo negli Usa, ma anche in Europa, dove tuttavia Christine Lagarde non vuole sentire parlare per ora di un vero e proprio “tapering” ma solo di un eventuale ricalibramento. Anche Isabel Schnabel, dal gennaio 2020 membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea e notoriamente un “falco”, ha detto che è poco probabile che l’inflazione possa continuare a rimanere troppo alta o addirittura aumentare in modo incontrollabile e si attende invece che possa diminuire notevolmente già dal prossimo anno. Secondo la Schnabel, la Bce agirà con attenzione e cautela.
Tranquillizzanti per i mercati anche le dichiarazioni di Olli Rehn, membro finlandese del board della Bce, per il quale nella zona euro la crescita è robusta, ma necessita ancora di un sostegno: le prospettive sono offuscate da colli di bottiglia e dalle varianti del Covid.
Per il momento i tecnici della Bce prevedono l’inflazione dell’area euro al 2,2% quest’anno, all’1,75% nel prossimo e all’1,5% nel 2023. A giugno le previsioni erano per un +1,9% nel 2021, un +1,5% nel 2022 e un +1,4% nel 2023. Gli stessi economisti hanno anche alzato le previsioni di crescita del Pil dell’area euro nel 2021 a +5%, tagliato leggermente quelle per il 2022 (+4,6%) e confermato quelle per il 2023 (+2,1%).
E’ comunque probabile che a dicembre la Bce renda noto il percorso che intende seguire per ridurre gli acquisti di bond nel contesto Pepp. Per questo motivo Goldman Sachs ipotizza che lo spread Btp/Bund si possa aprire fino a 120 punti base entro la fine del 2021. Per GS i differenziali aumenteranno in modo graduale a mano a mano che si ridurrà il sostegno della Banca centrale europea. In contemporanea alla risalita dello spread si dovrebbe assistere anche a una crescita dei rendimenti dei Bund tedeschi a 10 anni fino allo 0% nel primo trimestre 2022.
Le Borse sembrano aver metabolizzato tutto sommato bene queste novità, la prospettiva, cioè, che sia le Fed, sia la Bce possano in un prossimo futuro, in modo “morbido”, iniziare a ridurre gli interventi di stimolo all’economia. Certo, da qui a dire che la strada del rialzo è sgombra ce ne corre.
Già il fatto che le Borse non abbiano virato al ribasso nonostante la certezza che gli stimoli monetari andranno presto a scemare su entrambe le sponde dell’Atlantico è comunque un segnale di forza.
L’atteggiamento da mantenere nei confronti degli indici è quindi quello di un moderato ottimismo e di una grande attenzione ai supporti, pronti ad uscire dalle posizioni in caso di scricchiolii dell’uptrend.
Il Ftse Mib si è stabilizzato ormai da qualche tempo al di sopra della resistenza di area 25.000 e può ragionevolmente puntare al prossimo target, quello dei 28.500 punti, livello critico anche in ottica di medio lungo periodo. Un primo segnale di allerta verrebbe invece inviato al di sotto dei 25.000 punti, mentre la violazione di area 24.000 potrebbe poi anticipare cali più corposi.
Nel caso dello S&P 500, già discese al di sotto di 4.420, dove transita la media mobile esponenziale a 50 giorni, potrebbero segnalare un primo cedimento dell’uptrend. Supporti successivi a 4.230, poi in area 4.160. Fino a che i prezzi rimarranno al di sopra di 4.420 la tendenza rialzista sarà da considerare intatta, con target a 4.900 circa.
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