Il romanzo storico è un’opera narrativa ambientata in un’epoca passata, della quale ricostruisce l’atmosfera, gli usi, i costumi, la mentalità, la vita in generale, così da farli rivivere al lettore. Può contenere personaggi realmente esistiti, oppure una mescolanza di personaggi storici e di invenzione. Ha avuto una notevole fortuna nell’Ottocento e una nuova nella seconda metà del Novecento in seguito al grande successo de Il nome della rosa di Umberto Eco. In questi primi decenni del terzo millennio, i romanzi storici italiani sono di nuovo in testa alle classifiche dei bestseller nazionali ed internazionali: si pensi ai due libri sulla famiglia Florio (I leoni di Sicilia e L’inverno dei leoni) di Stefania Auci, libri tradotti in una trentina di lingue.
Un successo analogo merita Il vitello rampante (Aracne, 2021) di Maurizio Modugno, musicologo e saggista, alla seconda prova con questo genere; la prima è stata Ritorno a Bagdad di circa tre anni fa. Mentre in quel libro sulla scia delle vicende realmente vissute da un suo antenato tracciava un quadro del Medio Oriente negli anni della prima guerra mondiale, in Il vitello rampante prende spunto dalle vicissitudini di un ramo delle sua famiglia (originario di Mola di Bari) tra gli ultimi decenni del Settecento ed i primi dell’Ottocento per tracciare un quadro del Meridione che ci aiuta anche a meglio comprendere i problemi che si cerca di affrontare oggi.
Il romanzo si basa su un’attenta ricerca in merito alla famiglia Vitulli e sulla costruzione di una vicenda corale attorno al protagonista, Donato Antonio. I Vitulli appartengono a quella che può essere considerata aristocrazia “di secondo (o anche terzo) rango” di un Regno di Napoli sfarzoso ma povero, anche perché non ha mai realizzato quelle riforme dell’agricoltura (il principale settore produttivo dell’epoca) che nei primi decenni dell’Ottocento vennero attuate nel Nord Italia da Camillo Benso Conte di Cavour.
Un’aristocrazia la cui preoccupazione principale era quella di mantenere il patrimonio terriero (non di renderlo più produttivo) mandando le giovani figlie in conventi di clausura ed arrangiando matrimoni per i maschi, che non venivano indirizzati al sacerdozio. Le sorelle del protagonista finiscono tutte dietro le grate, pur mantenendo qualche anelito alla libertà. Donato Antonio viene, per decisione familiare, coniugato con la propria giovanissima nipote. Suo fratello cadetto avviato, contro voglia, alla carriera militare, un altro alla professione forense e a vita pubblica (sindaco della città).
Donato Antonio è ambizioso, ma nulla si sa sulla sua voglia di studiare e di lavorare: il patrimonio è curato da massari e mezzadri. Riesce a salire uno scalino importante nella graduatoria dell’aristocrazia del Regno: diventa Commendatore dell’Ordine Costantiniano. In tal modo, ha accesso a Corte per tutta una serie di cerimonie ufficiali. È convinto di essere, per così dire, “arrivato”. Conosce la Napoli in cui una coltre di lusso copre un sistema economico, politico e sociale già in decadimento. Quando arrivano a Mola di Bari notizie sulla rivoluzione francese, vengono tutti colpiti di sorpresa e non ne afferrano significato e portata. Nei vari moti che sulla scia della rivoluzione francese (e delle guerre napoleoniche) arrivano nella lontana Puglia, Donato Antonio finisce per poco più di sei mesi in prigione. Ne esce grazie al re, che in una visita in Puglia si ricorda del “commendatore” così attento e presente alla “cerimonia del baciamano” per il compleanno di Sua Maestà. Ormai la decadenza è iniziata ed è ineluttabile. I Vitulli non hanno gli strumenti per affrontare il cambiamento: nell’ultimo capitolo – siamo ormai nel 1843, nella Napoli del Regno delle Due Sicilie – la cognata vedova di Donato Antonio porta al banco dei pegni l’ultimo gioiello rimastole per una serata al San Carlo ed al ristorante per sé ed i suoi tre figli.
Come in un film di Luchino Visconti o di Franco Zeffirelli, c’è una grandissima attenzione ai dettagli (dai tessuti alle porcellane, dai palazzi alle masserie) al fine di ricreare un’atmosfera. Lo sviluppo psicologico dei personaggi è limitato perché i Vitulli sono trascinati dagli eventi socio-politici del mondo che li circonda, non cercano di dominarli o guidarli. La loro attenzione è al più sulla ricerca di una “commenda”.
Dall’attenzione ai dettagli – dicono Giuliano Amato e Michele Salvati – si comprende meglio il contesto ed il quadro generale. Non c’è nostalgia per quel mondo antico – come ad esempio ne Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa o ne I Vicerè di Federico De Roberto – ma se ne osserva asetticamente la dissoluzione, traendo indirettamente lezioni anche per i problemi di oggi: il Mezzogiorno non si sviluppa se non riesce a darsi una classe politica e imprenditoriale adeguata. Per questa ragione, questo romanzo storico è da raccomandarsi non solo a chi ama la lettura ed alle persone che un tempo veniva chiamate “colte”, ma anche a chi oggi si arrovella sulle determinanti dei ritardi del Mezzogiorno. Dal micro della descrizione di mobilio, abiti, porcellane, abitazioni e conventi si arriva al macro, ossia a scavare le ragioni dell’immobilismo di un mondo che guarda solo a se stesso. Nei Vicerè di De Roberto, il cadetto “politico” della famiglia proclamava: “ora che abbiamo fatto l’Italia, dobbiamo farci gli affari nostri”. E per questa ragione (“farci gli affari nostri”) si faceva eleggere deputato a Roma. I Vitulli non hanno neanche questo cinico obiettivo.
Maurizio Modugno è un musicologo. Quindi, il romanzo è strutturato non nei consueti capitoli, ma in un “tema” (la famiglia Vitulli), in quindici variazioni ed in una “fuga” conclusiva. Un modo raffinato per trattare la materia.
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