Esiste in Oriente una regione ove anticamente solo rare carovane s’avventuravano, valicando la cintura di fortezze che ne proteggeva l’inviolabilità. Una vena d’acqua pulsava laggiù da millenni, il fiume Amu-Daria – l’Oxus dei Romani – che dal Pamir andava al Lago d’Aral portando sollievo ai deserti del Karakum e del Kyzylkum e confine agli odierni Turkmenistan e Uzbekistan. Questa regione tra lago e fiume è detta Chorasmia.
Qui, sei secoli avanti Cristo – nel 628, ma forse è più probabile verso il 598, sotto il regno persiano di Ciro il Grande – Dughdovā, la nobile moglie di Parushaspa, della famiglia sacerdotale degli Spitama, partoriva il suo terzo figlio. Il concepimento e la nascita sono accompagnati da segni straordinari: legando la radice zair (oro) con la radice ush (rifulgere), gli viene posto il nome di Zardusht o Zarthosht o Zarathushtra, “colui dall’aureo fulgore”. A quindici anni egli si consacra interamente al culto del dio Ahura Mazdā: “Ho riconosciuto te come il santo, Ahura Mazdā, quando ti vidi al principio, al nascere della vita” (Yasna 47, 5). Verso i trent’anni riceve la prima divina rivelazione. L’arcangelo Vohu Manah (il “buon pensiero”, il Gabriele iranico) conduce la sua anima svincolata dal corpo alla presenza di Ahura Mazdā, che lo illumina sui celesti misteri e gli affida la missione di predicare con la vita e la parola la “vera devozione”.
Zarathushtra si pone apertamente come un profeta e rivolge il suo annuncio alla comunità d’origine, pastori, guerrieri, sacerdoti, principi e re locali. La reazione di costoro è tale che egli è costretto all’esilio e alla predicazione nel Turan (ad est del fiume) e nel Sagastan (nel sud-est dell’Iran). Per dieci anni inascoltato, seguito solo da uno sparuto gruppo di discepoli. Spostandosi sempre più ad Oriente, giunge là dove regna il kavi Vishtaspa, che ne abbraccia il verbo, facendosi suo seguace e protettore. Le conversioni si moltiplicano immediatamente e la riforma di Zarathushtra si allarga a macchia d’olio per tutta la Persia e la Media. La sua morte violenta avviene ad opera di un guerriero del Turan, a settantasette anni, mentre è raccolto in preghiera in un tempio del fuoco. Una grandiosa torre presso Persepoli, a Naqsh-e-Rostam, è detta tomba di Zarathushtra.
La sua teologia non può essere qui accennata che per punti fondamentali. Il primo è l’intuizione di un rapporto fra l’attività dello spirito divino e il reale. Ahura Mazdā è dio supremo. Ed opera per mezzo di un’energia dinamizzante: lo Spenta-Mainyu (lo spirito santo), la forza per cui la volontà del dio si realizza nelle cose e negli uomini. Se Ahura Mazdā è l’artefice sommo, egli è anche l’autore della luce e delle tenebre, del bene e del male. Tuttavia l’opposizione fra i due principi (e questo è il punto centrale della riforma di Zarathushtra) si pone solo tra spirito del bene e spirito del male, tra Spenta-Mainyu e Angra-Mainyu: il dio supremo resta uno, senza alternative ad una visione totalmente monoteista.
È duplice per contro l’opzione etica fondamentale: lo spirito santo per la verità (arta), lo spirito del male per la menzogna (drug), sì che la scelta tra il bene e il male, tra la vita e la non vita, è istanza che percorre tutto l’esistente, da Ahura Mazdā all’uomo. Ed è manifestazione personale di libertà, facoltà di assenso all’ordine, alla luce ovvero al disordine, alle tenebre.
Il secondo punto della fede zarathushtriana che va evidenziato è quello di una spiccata ritualità. Ahura Mazdā ha creato il mondo mediante uno yasna, un sacrificio compiuto davanti al fuoco sacro. Il rinnovarsi del sacrificio di Ahura Mazdā, dello yasna, è il centro del culto fondato da Zarathushtra: il rito fa acquisire all’officiante la condizione di magu che si ottiene con l’assunzione dell’haoma, bevanda spremuta da una pianta simile all’ephedra, ricca dello xvarenah, il fluido sacro assunto da una coppa sacra, che consente al magu un’esperienza estatica di illuminazione.
Ogni sacrificio contribuisce alla trasfigurazione e alla redenzione del mondo: che sarà totale nel giudizio definitivo, nel rinnovamento finale dovuto all’ultimo dei figli di Zarathushtra, Saoshyant, il salvatore venturo. Il cui sorgere è invocato dai magu sulla “montagna della vittoria”, da dove indagano nei cieli la splendente stella che ne annuncerà la nascita da una vergine. Saoshyant risusciterà i morti in carne e spirito e proclamerà la vittoria definitiva di Ahura Mazdā e del bene.
Il terzo ed ultimo punto da porre in luce è che l’unico libro della religione zarathushtriana è l’Avesta (upa-stā, ossia “testo fondamentale”; lo zand è il suo commento). Opera complessa, risultante di epoche e redazioni diverse, ma sicuramente di un blocco originario, le gatha, attribuito allo stesso Zarathushtra e giunto per tradizione orale. L’approccio esegetico più attendibile è oggi quello che vede nell’intera Avesta l’impronta di due fasi della religione mazdaica: quella puramente zarathushtriana e quella più tarda, sorta di riforma e di controriforma. Il rinnovamento predicato dal profeta – monoteista, spiritualista, etico, sociale – è infatti oggetto relativamente presto d’un processo sincretistico tra il nuovo credo e il vecchio apparato dualistico-politeista degli iranici. La classe dei magu diviene sempre più potente e politicizzata, ricca di un prestigio che non rimane limitato alla Persia.
I Greci stessi ne subiscono il fascino. Platone e l’intera Accademia attingono profondamente al mazdeismo e ritengono “Zoroaster” un pilastro del sapere umano, da porre accanto ad Orfeo, Hermes, Pitagora. Roma e la latinità vorranno trasformare lo “zoroastrismo” in magica scientia; il popolo – soprattutto i Parti, schiavi e soldati dell’Impero – vedrà nel Saoshyant, ormai identificato col dio Mithra, una speranza di riscatto.
Si afferma con fondamento che né Ebrei né cristianesimo siano sfuggiti all’influenza della religione persiana. Ma come negare che il monoteismo di Zarathushtra abbia guardato a quello ben più antico di Abramo, di Mosè, di Salomone? E come negare che i magi del Vangelo di Matteo (non re, ma sapienti iranici, magu) siano “epifania” d’una convergenza d’attese messianiche fortissime in Palestina come in Persia? O che infine la coppa sacra centro dello yasna sia un possibile contributo alla leggenda del Graal? Il medioevo è alle porte. E non dimentica Zarathushtra: Bacone lo porrà fra i sapienti pre-biblici e Petrarca lo dirà “dell’arte magica inventore”. L’Umanesimo neoplatonico ne farà un monumento al punto da veder fiorire uno zoroastrismo filosofico sulle rive d’Arno, con alfiere Marsilio Ficino.
Intanto a Oriente, in quella regione ove nessuno andava, nel 659 d.C. erano straripati gli Arabi: e dalla Persia, dalla Media, dalla Chorasmia, i “vecchi credenti” mazdaici erano lentamente scesi nel Golfo Persico, a Hormuz. Poi, verso il XIV secolo, nell’isola di Jerun e quindi per mare nell’Hindustan. Il pungolo islamico spingerà ancora i transfughi nel Gujarat, dove ormai vengono detti “Parsi”. Sconfitti dopo una furibonda battaglia contro le orde di Alf Khan, approdano a Udvada, a nord di Bombay. Qui il 28 ottobre 1742 l’àtaxh i warhàm, il fuoco sacro, trova la sua definitiva e ancor odierna collocazione.
L’Europa e la cultura europea già da tempo mostravano un nuovo interesse per Zarathushtra. In Inghilterra escono nel 1590 De religione Persarum di B. Brisson e nel 1630 The religion of Perses di H. Lord. Dalla Germania giungono nel 1647 gli Orientalisches Reise di A. Olearius. Nel 1700 Th. Hyde dà ai torchi di Oxford una fondamentale Historia religionis veterum Persarum eorumque Magorum. In Francia appaiono nel 1676 Les six voyages de J.B.Tavernier en Turquie, en Perse et aux Indes e nel 1711 Les voyages de monsieur le chevalier Chardin en Perse et autres lieux de l’Orient. Seguiti da quella che per lungo tempo è destinata a costituire una pietra angolare per la conoscenza di Zarathushtra. Nel 1762 Anquetil Duperron si reca in Persia e in India e ne torna con una copia dell’Avesta (e i mezzi per tradurla), pubblicando a Parigi nel 1771 Le Zend-Avesta, ouvrage de Zoroastre, contenent les idées théologiques, physiques et morales de ce législateur, les cérémonies du culte réligieux qu’ il établi: in realtà una traduzione perifrastica del sacro libro e del suo commento.
È un best-seller che – traversando Massoneria e Rivoluzione francese – arriva sulle scrivanie di non pochi intellettuali fra Sette e Ottocento. Goethe parla di Zarathushtra nel suo West-östlicher Divan. Hegel analizza nelle sue Lezioni di filosofia della religione il messaggio zarathushtriano con puntigliosa attenzione. Bournouf pubblica nel 1833 un suo Commentaire sur le Yasna non privo di rigore. Un approccio sempre più rigoroso ai testi sarà quello dell’edizione dell’Avesta curata da F. Spiegel e dei fondamentali Zoroastrische Studien di H. Windschmann (Berlino, 1863).
Nell’agosto del 1881, a Sils-Maria, nell’Engadina – lo ricorda Nietzsche stesso nelle Canzoni del principe Vogelfrei – Zarathushtra era “passato vicino” al filosofo: forse nella specie di uno dei lavori sull’Avesta apparsi in Germania, certo con la lettura dei Saggi dell’americano Ralph W. Emerson, che sul profeta si diffonde non brevemente. Nietzsche comincia realmente a lavorare a quello che sarà Also spracht Zarathustra nel 1883, fra Rapallo, Nizza e Mentone. L’ultima parte dell’opera viene pubblicata nel 1885.
Lo Zarathushtra di Nietzsche non è lo Zarathushtra persiano. Lacerti dell’Avesta appaiono qua a là, ma Zarathushtra per Friedrich è un “nome”. Il nome cercato, un nome che ha una sua arcaicità, un suo mistero, una sua forza sacrale, che è un ariano, che può ergersi ad antagonista di Siegfried e di Parsifal. Invano si cercherebbe in Also spracht Zarathustra una vicenda, confrontabile con le saghe dei Nibelunghi o del Graal: Zarathushtra qui è una sorta d’anacoreta che parla alla natura, agli animali, al cielo, da cui fluisce un inarrestabile torrente verbale, quasi un unico, immenso, oracolo sull’uomo, sulla vita, sul mondo. Zarathushtra per Nietzsche è anche un “tipo”: è l’eroe atteso, l’araldo, il guerriero, il distruttore della morale, l’anti-ebraico e l’anti-cristiano, il danzatore, il sinfonico, il profeta che “vede” e “rivela” il venturo “Übermensch”.
La tensione ideologica innescata è altissima e dona fama all’autore e al “protagonista”. Sbiadito poi da Also spracht il fascino eversivo delle idee, apparve – ed appare – intangibile quello d’una prosa poetica che usa con genio stupefacente il tedesco dell’epoca di Lutero e d’una fantasia che propone immagini e momenti di rapinosa bellezza. Tali da imprimersi profondamente anche fuori dell’hortus philosophicus e da farsi per molti malia irresistibile. Le sue conseguenze sul pensiero e sull’arte non sono ancor oggi sopite.