Ha fatto discutere l’intervista della Stampa a Giorgetti, numero due della Lega e ministro per lo Sviluppo economico. Soprattutto per una frase, “Se Calenda va al ballottaggio con Gualtieri ha buone possibilità di vincere”: un malizioso endorsement al leader di Azione che Giorgetti ha successivamente smentito (“Figuriamoci se tifo per Calenda… l’auspicio è che il 3 e il 4 ottobre romani, milanesi, torinesi possano voltare pagina e cambiare passo con Michetti, Bernardo e Damilano”). Ma per Antonio Pilati, saggista, esperto di media, ex commissario Agcom e Antitrust, il motivo d’interesse è un altro.
Quali sarebbe? Si sapeva che Giorgetti è un fan di Draghi. Anche un sponsor di Draghi al Colle.
A mio avviso il nocciolo dell’intervista sta nel dire che il 2022, se non si andrà al voto dopo l’elezione del presidente della Repubblica, sarà un anno difficile da governare. È un lettura opposta alla narrazione veicolata da Pd e principali giornali, secondo la quale bisogna garantire la stabilità con la continuazione del governo Draghi.
Giorgetti fa capire che sarebbe un anno di campagna elettorale continua. A voler essere maliziosi, non è soltanto un’osservazione politica, è anche un avvertimento.
Il messaggio è che dopo l’elezione del capo dello Stato, con la fine della legislatura in vista, la maggioranza rischia di frantumarsi. Sarebbe oggettivamente un danno grave per l’Italia.
Per quale motivo?
Ma perché con l’alto debito pubblico che abbiamo e le attese dei nostri partner europei sulle riforme da fare, non possiamo permetterci un anno di instabilità politica.
Mattarella nega di essere disponibile al bis e non potrebbe essere altrimenti. C’è o no una campagna elettorale in atto?
Molti indizi farebbero pensare che non Mattarella, ma qualcuno del suo entourage stia pensando a un secondo mandato.
Quali indizi?
Un certo attivismo istituzionale, l’insistenza nel delineare scenari futuri, a cominciare dall’Europa; la copertura che il Quirinale continua a fornire a una magistratura in crisi profonda. Ma c’è un altro motivo che rende significativa l’uscita di Giorgetti.
Il voto tedesco?
La metterei in modo diverso. Le forze europee e internazionali che hanno sostenuto l’avvento di Draghi a Palazzo Chigi, ovvero Stati Uniti e Germania, vivono un momento difficile.
Cominciamo da Biden.
Ha fatto dello scontro con la Cina il perno della sua politica internazionale e sta lavorando al coordinamento di un sistema di forze per contrastarla. Non c’è solo l’Aukus: anche India, Giappone, Sud Corea e Vietnam rientrano in questo progetto. È la prima operazione concreta di contenimento della Cina dopo che Trump ha individuato in Pechino il pericolo da arginare.
Quindi?
È un’agenda che mette altri quadranti internazionali, soprattutto l’Europa, in secondo piano. Il modo con cui le velleità della Francia sono state rispedite al mittente mi pare significativo.
E la Germania?
Non si tratta tanto di pronosticare chi andrà al governo: questo lasciamolo ai politici tedeschi. Il dato che ci interessa è che la Cdu-Csu ha perso 9 punti. Finora il sistema politico europeo ha avuto come forza principale il Ppe, che però con la grave sconfitta dei democristiani tedeschi perde peso. Il Partito popolare europeo guida il governo solo in tre paesi europei: Austria, Grecia e Slovacchia, dove l’esecutivo è in mano a un partito più vicino alle posizioni di Salvini (OĽaNO, di Igor Matovič, ndr) che a quelle della Merkel. In tutto sono 25 milioni di persone, una frazione molto piccola dell’insieme europeo. Nei grandi paesi europei invece i popolari faticano molto.
Si riferisce a Italia e Francia?
Forza Italia e Les Républicains sono al 7-8%, in Spagna il Partido popular ha un risultato nettamente migliore, ma è all’opposizione, su una linea radicale lontana da quella prevalente nel Ppe.
Come si spiega la crisi dei popolari?
Il Ppe ha seguito fino a oggi una linea di subalternità ideologica ai socialisti su temi come i diritti civili e l’apertura ai migranti. Una crisi di orientamento che oggi si è tramutata in crisi elettorale. La crisi non riguarda solo le principali forze politiche del Ppe ma coinvolge anche i sistemi politici dei grandi paesi europei.
E da cosa dipende?
È un effetto della cattiva architettura del sistema europeo. La concentrazione sul mercantilismo in sede economica e l’esercizio del potere per via burocratico-amministrativa hanno marginalizzato la politica. Questo deficit di ispirazione e le scelte conseguenti, come l’ossessione sui vincoli del Patto di stabilità, creano problemi all’Italia, perché siamo un paese debole.
Che conclusioni possiamo ricavare da tutto questo?
Se il quadro europeo si frammenta e ciascun paese segue la propria crisi, noi rimaniamo senza punti di riferimento, esposti ai mercati e alle conseguenze del debito.
Si è a lungo rimproverato alla Lega di non voler scegliere tra “sovranismo” ed europeismo. Giorgetti difenderebbe l’ingresso della Lega nel Ppe, Salvini sarebbe di avviso opposto.
Si potrebbe ribaltare il discorso: al Ppe farebbe comodo avere in Italia un partito del 20%. Detto questo, va osservato che dalla costituzione del governo Draghi in poi Salvini ha fatto una serie di passi molto significativi.
Sarebbero?
È entrato al governo, ha sponsorizzato l’idea di una federazione con FI, per razionalizzare il centrodestra; ha promosso con i Radicali italiani i referendum sulla giustizia, ha resistito alle provocazioni quotidiane di Letta. È un comportamento molto responsabile, compatibile con un’apertura al Ppe.
Se Salvini è coerente, dovrebbe essere un Ppe disponibile a rivedere i trattati europei. Ne vede le condizioni?
Per adesso dobbiamo limitarci a dire che la linea Merkel di subalternità ideologica ai socialisti è stata bocciata dagli elettori tedeschi. L’attuale assetto europeo crea problemi su molti fronti: all’interno una crescente divergenza economica, all’esterno uno scivolamento verso l’irrilevanza politica. Rivedere i trattati è la via maestra per aggiustare un’architettura disfunzionale, ma sarà molto difficile trovare l’assenso di tutti i paesi Ue.
C’è un “momento Draghi” che si delinea a livello europeo. Ritiene che Draghi possa impersonarlo stando al Quirinale?
Al Colle più che altrove, perché la presidenza della Repubblica resta il centro della vita politica italiana. Nel tempo i suoi poteri sono andati espandendosi man mano che i partiti si indebolivano.
Non è eccessivo paragonare Draghi a De Gaulle?
Il paragone regge solo se si pensa alla distanza che c’è tra i partiti e la personalità preminente nel quadro politico.
De Gaulle fece fallire la difesa comune europea. Il Colle oggi difende quella causa.
Auspicare oggi una difesa comune europea è solo retorica. De Gaulle era profondamente nazionalista, da noi il Colle ha protetto uno status quo che indebolisce l’Italia.
Il 3 e 4 ottobre i partiti peseranno il proprio consenso. Cosa succederà tra il voto regionale e il gennaio 2022?
Chi si riterrà vincitore delle elezioni aumenterà le sue pretese, ma come abbiamo visto, dalle pretese dei partiti Draghi riesce a svincolarsi molto facilmente.
(Federico Ferraù)
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