Il brusco aumento dei prezzi che sta accompagnando la ripresa dell’economia nel contesto internazionale sta facendo sorgere seri dubbi sulla sostenibilità delle politiche economiche espansive fondate sui due pilastri dell’ampliamento delle disponibilità finanziarie a basso costo e dei sostegni erogati dagli Stati nazionali alle imprese e alle famiglie. Per il momento tra le autorità monetarie prevale la convinzione che l’aumento dei prezzi sia un fenomeno provvisorio da collegare al mancato utilizzo delle potenzialità produttive rispetto alla fase pre-Covid, che determina una carenza di materie prime, di semilavorati e di componenti tecnologici, rispetto alla domanda internazionale. Una condizione esposta inevitabilmente a fenomeni speculativi nel breve periodo, destinati a essere ridimensionati con il completo ripristino delle filiere produttive.
Fino a poco tempo fa lo scenario caratterizzato da un ragionevole incremento dei prezzi, indicativamente vicino al 2% annuo, veniva teorizzato dalle autorità monetarie come la condizione ottimale per favorire la ripresa economica. Quello deflazionistico continua a essere il più temuto, perché può comportare il rinvio delle scelte di investimento e di consumo da parte delle imprese e delle famiglie, e una remunerazione negativa dei risparmi depositati nelle banche.
Viceversa, un ragionevole incremento dei prezzi e un incremento del Pil nominale possono contribuire al ridimensionamento dei livelli di indebitamento reale degli Stati e delle imprese. A condizione che i rendimenti dei titoli pubblici, e i tassi di interesse da pagare sui prestiti e sui mutui erogati dalle banche, rimangano contenuti.
Dal mantenimento di questo scenario dipende la tenuta dell’intero impianto delle politiche economiche messe in campo dalle istituzioni europee. E tutto questo offre una spiegazione ragionevole delle valutazioni ottimistiche sull’andamento dei prezzi nel medio periodo rilasciate all’unisono dalle presidenti della Bce Lagarde e della Commissione europea von der Leyen.
Lo scenario dei prezzi stabili, o decrescenti laddove l’impatto delle tecnologie diventa invasivo, viene considerato ancora da molti economisti il più probabile. L’aumento esponenziale della produttività si accompagna a quello della riduzione dei costi, a partire da quello del lavoro, ponendo la necessità di compensare la crescita dei redditi con la generazione di posti di lavoro compensativi nelle attività economiche in espansione, con un aumento dei salari dei lavoratori.
Un percorso tutt’altro che lineare, dati i vincoli derivanti dalla competizione su scala globale e dell’aumento del numero dei lavoratori con qualifiche e retribuzioni medio basse, in particolare nei settori dei servizi. Ed è proprio la mancanza di linearità che comincia a far sorgere dubbi, non esplicitamente confessati, sulla tenuta delle attuali politiche economiche.
La transizione verso un’economia ecosostenibile e digitale si potrebbe rivelare più problematica del previsto. Innanzitutto perché condizionata dagli equilibri geopolitici che stanno riversando il loro peso su quelli economici. Questo vale, ad esempio, per la dipendenza delle materie prime, vedi l’attuale ruolo della Russia per il gas, e della Cina per le terre rare indispensabili per la produzione delle nuove tecnologie. Per l’Europa è un percorso che comporta costi rilevanti, e risultati minimi in termini di impatto globale, se non accompagnato da analoghi sforzi da parte dei Paesi asiatici e degli Usa. L’intenzione originale era quella di sfruttare i margini per l’incremento dell’inflazione dei prezzi aumentando la tassazione sui prodotti inquinanti, per finanziare gli investimenti ecosostenibili. Un approccio smentito, almeno per il momento, dai provvedimenti che stanno andando nella direzione opposta: quella di contenere con la riduzione delle accise l’aumento dei prezzi del petrolio e del gas sulle bollette energetiche.
I prezzi stabili hanno reso meno dolorose la stagnazione dei salari e l’azzeramento dei tassi di interesse sui depositi bancari.Un ulteriore incremento del tasso di inflazione verso l’attuale 4% degli Stati Uniti renderebbe difficilmente sostenibile questo equilibrio.
Anche sul versante del lavoro l’impatto della transizione non è neutrale. A parità di crescita economica, sta aumentando in tutti i Paesi sviluppati la difficoltà di reperire risorse umane con profili adeguati ai nuovi fabbisogni delle imprese. Per le qualifiche medio-alte è assai probabile che si verifichino degli incrementi spontanei delle retribuzioni da parte delle imprese. In molti Paesi stanno prendendo corpo le proposte di aumentare i salari minimi tramite provvedimenti legislativi.
Alcune caratteristiche degli aumenti dei prezzi hanno connotati strutturali, forse non tali da evocare il peggiore degli scenari, quello della stagflazione rappresentato dalla combinazione tra la riduzione del tasso di crescita e di un incremento dell’inflazione. Se la Fed, la banca centrale americana, decidesse di aumentare i tassi di interesse sui prestiti, le conseguenze non sarebbero neutrali per l’Europa. Soprattutto non lo sarebbero per l’Italia. La sostenibilità dell’indebitamento pubblico dipende dal tasso di crescita del Pil e dal contenimento dei rendimenti sui titoli pubblici.
Uno scenario inflazionistico comporterebbe un parallelo trascinamento degli oneri per la spesa pubblica previdenziale e assistenziale e sulle rivendicazioni salariali.
Il problema italiano è aggravato dalla bassa produttività dei comparti dei servizi e da una carenza di risorse umane qualificate superiore a quella dei mercati del lavoro dei Paesi sviluppati. È la spiegazione della stagnazione dei salari che perdura da molti anni e che qualche politico burlone pensa di poter aggirare aumentando per legge i minimi salariali sopra i livelli previsti dai contratti collettivi.
Senza un incremento della produttività, che a nostro avviso dovrebbe rappresentare l’oggetto primario del ventilato Patto per l’Italia, accompagnando la crescita degli investimenti digitali e di quelli dedicati al miglioramento delle competenze delle risorse umane, l’aumento delle retribuzioni rischia di essere vanificato da quello dei prezzi.
Una corretta percezione dei rischi da parte delle istituzioni e delle parti sociali rappresenta il punto di partenza per qualsiasi proposta di riforma delle politiche del lavoro.
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