Quando il dialogo cambia la storia

La storia è piena di esempi che mostrano come la politica internazionale basata sulla diplomazia, il dialogo fatto di piccoli passi, sia fruttuosa

Gli equilibri geopolitici internazionali stanno subendo una trasformazione radicale con l’affermarsi implacabile di potenze mondiali come la Cina. Si è parlato molto nelle scorse settimane dell’accordo “Aukus” tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia per la difesa nell’area indo-pacifica che prevede la presenza di sottomarini a propulsione nucleare. Sembra di essere sulla strada di una nuova Guerra fredda.

Tanti hanno cominciato a prefigurare scenari ben conosciuti dalla storia umana, dettati da rapporti di forza, strategie, scontri commerciali e militari, in definitiva, guerre. C’è però un altro modo per guardare la politica internazionale: quello della diplomazia, del dialogo fatto di piccoli passi, di compromessi positivi. La strada che ad esempio la Santa Sede ha sempre suggerito, per lo più inascoltata anche in questi anni, come nel caso della sciagurata azione in Libia o nel conflitto siriano, in cui solo l’intervento diretto di papa Francesco e la maggior lungimiranza delle cancellerie europee ha evitato il bombardamento a tappeto della Siria.

Vent’anni fa ci fu la guerra contro l’Afghanistan per debellare il terrorismo e fu una guerra approvata da tutti. Di diciotto anni fa è la seconda guerra contro Saddam Hussein, motivata dal suo presunto possesso di armi di distruzione di massa che si dimostrarono nel tempo del tutto inesistenti. Anzi, le prove di questo crimine erano state costruite ad arte per giustificare gli interventi americani e dei loro alleati contro molti Paesi del Terzo mondo. La giustificazione addotta fu quella di esportare la democrazia occidentale. Oltre alle guerre in Irak, si può pensare agli interventi scomposti nella ex Jugoslavia a sostegno di una o dell’altra etnia, alla guerra contro Gheddafi in Libia, ad Assad in Siria, all’appoggio ai Fratelli musulmani in Egitto contro Mubarak. Tutte queste guerre, così come le tante altre “dimenticate”, hanno portato a decine di migliaia di morti, a un caos generalizzato e alla fine al ritorno al potere di gruppi terroristici. Nessuna di queste guerre ha ottenuto i risultati che chi le ha scatenate si era prefissato. O comunque non in modo proporzionato agli sforzi e al prezzo pagato.

Per questo la Santa Sede ha sempre incoraggiato momenti di dialogo apparentemente infruttuosi nelle istituzioni internazionali come l’Onu, il G7, il G20. E ha portato avanti mediazioni come quella tra Argentina e Cile, tra Cuba e gli Usa o in Colombia tra Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) e il governo. Oppure, per ricordare la lunga storia della Guerra fredda, in cui si è evitato l’uso dell’atomica grazie all’ostpolitik, l’azione diplomatica cominciata da Willy Brandt e altri politici europei.

Pensiamo ancora al ruolo dell’Italia in quegli anni, con personaggi come Enrico Mattei, che ha creato l’Eni in alleanza con i produttori di petrolio trattandoli alla pari, diversamente da quanto faceva il colonialismo delle “Sette sorelle”. Si pensi anche all’intensissimo lavoro diplomatico di Giulio Andreotti (i suoi diari documentano gli incontri continui con politici del blocco orientale, del Terzo mondo, del mondo arabo e israeliano), alla politica di alleanza di Bettino Craxi con i Paesi arabi della costa Sud del Mediterraneo e in generale del Terzo mondo.

Un Paese fermamente occidentale come l’Italia ha svolto in quel periodo un ruolo fondamentale come cerniera tra l’alleanza atlantica e il blocco comunista, il Nord e il Sud del mondo, Israele e i Paesi arabi.

Nel momento della caduta del Muro di Berlino divenne decisiva, per evitare conflitti sanguinosi, la posizione mediatrice di personaggi come Mikhail Gorbaciov, Wojciech Jaruzelski, Helmut Kohl, François Mitterrand, Giulio Andreotti e la presenza di leader popolari come Václav Havel e Lech Wałęsa.

Anche la fine pacifica dell’apartheid in Sud Africa, grazie al dialogo tra Nelson Mandela e il presidente De Klerk, non era prevedibile, ma accadde.

In presenza di interessi contrapposti, un confronto basato su rapporti di forza non è affatto inevitabile. Altre dinamiche posso dominare e anzi dominano, secondo alcuni, la convivenza tra gli uomini sulla terra.

Jeremy Rifkin nel suo interessante volume “La civiltà dell’empatia” afferma: «In genere gli storici scrivono di conflitti sociali e guerre, di grandi eroi e terribili malfattori, di progresso tecnologico e di esercizio di potere, di ingiustizia economica e di tensioni sociali. […] Raramente li sentiamo parlare dell’altra faccia dell’esperienza umana: quella che rivela la nostra profonda natura sociale, l’evoluzione e l’estensione degli affetti e l’impatto di tutto ciò sulla cultura e sulla società». In realtà, però, «è la straordinaria evoluzione della coscienza empatica a costruire il sottotesto essenziale della storia dell’uomo, anche se gli storici hanno mancato di dedicarle la dovuta attenzione». E aggiunge: «Forse è questa la ragione per cui, quando pensiamo alla natura umana, la nostra analisi è così sconfortante. La nostra memoria collettiva si misura in termini di crisi e calamità, di feroci ingiustizie e terrificanti episodi di brutalità che infliggiamo ai nostri simili e alle altre creature. Ma se fossero questi gli elementi cardine dell’esperienza umana, l’uomo sarebbe già estinto da tempo».

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