Si parla tanto, in relazione alla crisi afgana, anche di un’effettiva azione condivisa europea per far fronte alle esigenze di sicurezza internazionale. Qualcuno ha ricordato che dopo la Seconda guerra mondiale si è arrivati a un passo dal costituire una Comunità europea di difesa (CED), che nel 1954 è abortita a motivo di un voto negativo dell’Assemblea nazionale francese. Nondimeno, da quell’insuccesso si è ripartiti con la creazione (1° gennaio 1958) tanto della Comunità economica europea quanto della Comunità europea dell’energia atomica, aggiuntesi alla prima Comunità, quella del carbone e dell’acciaio nata nel 1952.
Tra i fantasmi che oggi affollano l’Europa ci sono la Politica estera e di sicurezza comune dell’Unione europea (PESC) e la Politica europea di sicurezza e difesa comune (PSDC), ma anche svariati altri acronimi spuntati nel contesto del Trattato sull’Unione europea-TUE: si pensi al SEAE (Servizio europeo per l’azione esterna), al CPS (Comitato politico e di sicurezza), all’EDF (European Defense Fund), all’ EUMC (Comitato militare dell’Unione europea). Il primo gestisce le relazioni diplomatiche Ue e ne supporta verso Stati non membri e altri contesti internazionali; il secondo è responsabile di PESC e PSDC; il terzo finanzia la ricerca in materia di difesa e ne promuove una base industriale innovativa; l’ultimo è il massimo organismo militare istituito nell’ambito del Consiglio dei Ministri Ue (uno dei due principali organi intergovernativi) e dirige tutte le attività svolte in materia nel quadro dell’Unione, in particolare la pianificazione e l’esecuzione delle missioni e operazioni nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune e lo sviluppo delle capacità appunto militari, offrendo inoltre consulenze al Comitato politico e di sicurezza e formulando raccomandazioni sempre su questioni militari.
Si tratta di attività che non si vogliono certo sminuire, come quando concernono interventi in Kosovo (missione EULEX) o in Africa (Sahel, Africa occidentale, Corno d’Africa), ma certamente appaiono sovente etichettature enfatiche sopra un minimo di competenze significative dal punto di vista di un’evoluzione federale europea.
D’altra parte negli affari esteri e nella politica di sicurezza l’Unione europea ha, persino, un rappresentante per così dire fantasmaticamente fuori dall’ordinario: infatti è definito «Alto»!
E a dare un poco di peso alle competenze in verità assai “leggere” attribuite in suddetta materia all’Unione dai suoi trattati istitutivi si arriva a consentire agli Stati membri più volonterosi (almeno nove però) di realizzare nei settori in questione una «cooperazione rafforzata», … guarda caso mai attivata diversamente da quanto con profitto accaduto nel contesto del Trattato sul funzionamento dell’Ue-TFUE (si pensi alla cooperazione cosiddetta di Schengen, a certi aspetti del diritto di famiglia, al brevetto unitario europeo, alla Procura europea).
A dar di tutto ciò evidenza precisa, con un’immagine emblematica e simbolica, è venuta alla ribalta recentemente la questione del “sofà turco”, interpretata immediatamente come sgarbo del “Sultano” regnante di quel Paese (il Presidente Erdogan) nei confronti della Presidente della Commissione europea von der Leyen, da subordinare in quanto donna nelle precedenze (e nell’accomodarsi a sedere accanto a Erdogan) rispetto al Presidente del Consiglio europeo Charles Michel, in quanto uomo (maschio). E se invece la questione (per certi versi assai più seria) fosse quella di aver voluto dar prevalenza al Presidente del Consiglio europeo, in quanto organo spiccatamente intergovernativo, rispetto all’organo di governo dell’Ue – la Commissione – che è invece autonomo rispetto alla volontà dei singoli Paesi membri e dunque “comunitario” ovvero di stampo federale?
Che fare?
Che fare mentre la NATO (Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord) manifesta esigenze di inevitabile “ristrutturazione”? Che fare allorché l’UEO (Unione dell’Europa Occidentale) istituita nel 1948 con compiti di difesa e sicurezza europea è scomparsa (ma pochissimi ne ricordano un’attività significativa), vedendosi trasferite da qualche anno le competenze proprio all’Ue, sulla base dell’art. 42.1 del Trattato sull’Unione europea?
Che può fare l’Unione europea per la costruzione di una propria sostanziosa ed effettiva politica estera e di sicurezza nonché di difesa davvero “comune”?
Va ben considerata l’azione che in particolare nel TUE è volta alla definizione di una politica estera e di sicurezza comune fra Stati membri e persino di una comune politica di sicurezza e di difesa.
Non si può però, ad esempio, non menzionare al riguardo il tema di un’adeguata politica migratoria dell’Ue, tanto auspicata quanto compressa da clausole di riserva sovrana statuale (ad esempio, l’ art. 79.5 TFUE) e addirittura dalla mancata rispondenza di Stati membri ad atti “comunitari” quali le due decisioni del Consiglio dei Ministri Ue del 2015 sulla “ricollocazione” di migranti a vantaggio di Grecia e Italia. Eppure, si dice nei trattati, «L’Unione sviluppa una politica comune dell’immigrazione» e «una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea» (artt. 79.1 e 78.1 TFUE). Persino un Patto europeo su migrazione e asilo è stato adottato nel 2020, succedendo all’Agenda europea sulla migrazione del 2015.
I risultati non sono perspicui!
Così, nell’Ue gli strumenti di politica estera offerti dai Trattati istitutivi sono sostanzialmente intergovernativi e di mera concertazione offerta ai 27 Paesi membri, benché anche in quest’ambito proposte di riforma – come quella, abituale, di recedere dalla regola intergovernativa del voto all’unanimità che in settori decisivi sopravvive – siano state fatte anche recentissimamente (si veda: Il summit del Ppe a Roma: «Ora basta con l’unanimità». Weber: stop almeno in politica estera, in Corriere della Sera, 21.9.2021, p. 12).
Tant’è che le azioni istituzionali che, per restare alla stretta attualità, si cercano di proporre relativamente alla situazione afgana, comprese quelle di ricerca di modalità di “esfiltrazione” da quel Paese di persone in pericolo, fanno in gran parte riferimento a contesti di cooperazione istituzionale internazionale diversi da quello Ue. Si vedano ad esempio l’iniziativa del nostro Paese per una riunione straordinaria ad hoc del G20, quest’anno a guida italiana, oppure le iniziative da incardinare nelle Nazioni Unite prospettate dalla sen. Bonino (su La Repubblica del 22.9 scorso, p. 17) con riferimento alla proposta di una specifica Commissione internazionale di monitoraggio sui diritti umani da far nascere dal Comitato Onu per i diritti umani che ha sede a Ginevra.
Puntualmente dedicato all’Ue, andando anche oltre la vicenda afgana e promuovendo una capacità militare autonoma ed efficace dell’Ue, è invece l’intervento del generale Graziano, che addirittura richiama quella possibilità di cooperazione rafforzata fra Stati membri più sopra evocata. Scrive il generale (Difesa comune europea, una scelta da non rinviare, in Corriere della Sera, 10.9.2021, p. 38): «Abbiamo bisogno da subito di un pacchetto di forze prontamente operative in grado di difendere quel bene comune che è la sicurezza dei cittadini europei e di rispondere in maniera efficace a tutto lo spettro delle crisi che saremo, purtroppo, chiamati a fronteggiare. Ciò non potrà che essere la risultante di una cooperazione rafforzata fra le forze armate dei Paesi membri, consapevoli che nessuna crisi può essere risolta solo dai militari, ma avendo ben chiaro che sempre più spesso la risoluzione delle crisi necessita del contributo militare.
In questi giorni tanto si dibatte di nomi, sigle e numerici: “EU battle group”, forza d’intervento rapido da cinquemila, ventimila uomini e via dicendo. Punti importanti che possono, però, discendere solo dalla chiara volontà politica di investire l’Unione di maggiore e precise responsabilità, anche in materia di sicurezza e difesa comune. Verrà il tempo per discutere di denominazioni e consistenze numeriche puntuali; oggi è il momento di identificare ciò di cui l’Unione necessita per agire quale “global security provider”, in linea con i livelli di ambizione fissati dai Paesi membri, assumendo quel ruolo che le spetta sul palcoscenico mondiale. Dobbiamo sgomberare ogni possibile dubbio che un’Europa della difesa abbia l’arrogante pretesa di porsi in contrapposizione o in alternativa all’Alleanza Atlantica. È vero il contrario. Ciò che fa bene all’Europa fa bene alla NATO; un’Europa più forte significa non far gravare la responsabilità della sicurezza dei nostri Paesi quasi esclusivamente sulle spalle dello storico alleato americano. Iniziative in questo ambito non solo ci permetteranno di non essere il manzoniano vaso di terracotta tra vasi di ferro ma contribuiranno a superare egoismi nazionali, frammentazioni di spesa e duplicazioni organizzative. Quella dell’autonomia strategica, che non è indipendenza da qualcuno ma la capacità di agire da soli se necessario, è la strada da percorrere per non condannare l’Europa all’irrilevanza strategica».
Va sottolineato che il generale Graziano è Presidente del già citato Comitato militare dell’Unione europea: l’imperativo ora è di riempire i gusci di contenuti adeguati alla dura realtà dell’odierna vita di relazione internazionale (al cui riguardo l’accordo Aukus – fra Australia, UK/Gran Bretagna e Usa sui sottomarini nucleari in funzione di contrapposizione alla Cina – rappresenta un esempio).
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