Stagflazione. Occorre risalire indietro di quasi mezzo secolo per rivivere quella miscela tra inflazione in ascesa ed economia ferma, incapace di venire a capo dell’aumento delle materie prime e delle tensioni sui salari innescate dagli aumenti. Il fantasma della stagflation fa capolino oggi nei commenti sui listini internazionali dopo la frenata delle Borse a settembre: -5,8%, il risultato peggiore dal marzo 2020, il primo mese della pandemia.
I mercati affrontano la svolta con grande apprensione. Comprensibile, perché nessuno dei protagonisti, vuoi nei grandi fondi di investimento o presso le banche centrali, ha mai sperimentato il problema, frutto del primo shock petrolifero e della successiva impennata del costo della vita. Ma negli ultimi quarant’anni, politiche dell’offerta e progressi tecnologici hanno prodotto abbondanza di materie prime, massima fluidità dei flussi commerciali e disponibilità di manodopera a basso costo. Soddisfatti e tranquilli sul lato dell’offerta, i mercati hanno dedicato gran parte delle loro attenzioni e preoccupazioni ai problemi della domanda, depressa dalle politiche dell’austerità e dalle svalutazioni interne che hanno compresso i consumi privati e gli investimenti pubblici. Oggi riscopriamo che i problemi possono venire anche dal lato dell’offerta, soprattutto se questa è messa sotto stress da un nuovo contesto geopolitico e dal nuovo aggressivo dirigismo dei governi.
Stavolta non è un problema di scarsità di risorse. Ma il mondo dell’energia è investito da una sorta di rivoluzione permanente, accelerata dalla scelta di completare l’uscita dal carbone e dell’energia fossile in tempi rapidi, cosa che nel breve sta provocando per paradosso un’impennata del greggio e, più ancora, del gas naturale. Su questo s’innesca una crisi dell’offerta scatenata dai colli di bottiglia e dalle deficienze logistiche, specie in Asia, esplose con la ripartenza delle economie finora indirizzate verso la filosofia del just in time o zero magazzino. Il risultato è la combinazione di un aumento dei listini, imposto dall’aumento delle commodities, esasperato dalla scarsità dei beni in offerta, l’esatto opposto dell’eccesso di capacità produttiva che ha tormentato i mercati nei giorni della globalizzazione più spinta.
Un quadro inedito, insomma, che spaventa i mercati finanziari perché implica un aumento dei tassi a fronte dell’inflazione, minori profitti per le aziende (visto l’aumento dei costi logistici e dei freni imposti all’import). L’Europa, è vero, è per ora l’area meno esposta, anche perché è stata l’ultima a ripartire. Ma presto il fenomeno investirà la Germania, già oggi alle prese con un’inflazione record, e ancor di più il Regno Unito che, dopo aver cacciato con odio “gli idraulici polacchi”, colpevoli secondo Boris Johnson di vivere alle spalle del welfare inglese, prega perché i camionisti lettoni o slavi tornino a guidare per qualche mese sulle strade inglesi, ricevendo un meritato e comprensibile pernacchio che risuona fin sotto il Big Ben.
Un disastro? Il rischio è di ripetere gli stessi errori del passato, senza tener conto del progresso tecnologico. Certo, l’opinione pubblica resta ferocemente ostile al nucleare, che pure potrebbe aiutare ad affrontare l’emergenza climatica. Ma ci sono ragioni per guardare al bicchiere mezzo pieno: la transizione energetica comporterà enormi investimenti mentre la trasformazione del mercato del lavoro darà una forte spinta alla digitalizzazione, alla robotica e all’intelligenza artificiale. Si entra in una fase di trasformazione del mondo del lavoro che ci imporrà un diverso uso del tempo.
Non è un futuro nero, anche se la crescita rallenterà di qualche decimale di punto a causa dei costi della riconversione ambientale. Purché non si commetta l’errore di aumentare troppo i tassi strozzando nella culla il mondo che verrà. O, peggio ancora, di agitare l’arma del protezionismo nell’illusione che si possa far pagare agli altri il prezzo della transizione.
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