La vita di Pierluigi Cappello (Gemona del Friuli, 1967 – Cassacco, 2017) è stata segnata da due avvenimenti drammatici. Aveva nove anni quando la terra tremò nel suo Friuli, il 6 maggio 1976, causando quasi mille morti e la fine di un mondo. Abitavo allora in un paese in provincia di Venezia, a 160 km dall’epicentro di Gemona: vedemmo ondeggiare i lampadari e ci precipitammo sulla strada; sentimmo la terra tremare sotto i nostri piedi. Non ricordo di aver mai provato un terrore simile. È difficile immaginare cosa devono aver vissuto i nostri fratelli friulani.
A settembre ci fu un’altra, violentissima scossa, di poco inferiore alla precedente: i sopravvissuti, come la famiglia Cappello, sfollarono nelle città della costa adriatica, per poi ricevere in dono un prefabbricato, da parte del governo austriaco, dove il poeta trascorse la parte maggiore della sua vita. Nonostante questo, l’infanzia e l’adolescenza di Pierluigi furono serene: si iscrive all’istituto aeronautico, forte della passione per il volo che non l’abbandonò mai; è un atleta promettente, capace, a 16 anni, di correre i 100 metri in 11,4. È il settembre del 1983 quando accetta un passaggio in moto da un amico; non riescono ad evitare la sporgenza di una roccia: l’amico muore sul colpo, Pierluigi subisce lesioni gravissime. Uscirà dall’ospedale un anno e mezzo dopo, confinato in una sedia a rotelle per tutta la vita. L’autobiografia di Questa libertà (Rizzoli, 2013) si ferma qui: il resto della vita è raccontato dalla poesia.
Si mise allora in ascolto di se stesso e le parole vennero a trovarlo e a consolarlo. Per purezza, forza, pazienza e sensibilità Pierluigi Cappello ha qualcosa di Kafka. Sentiva, come il grande scrittore boemo, che la vera conquista era la capacità di abbandonarsi. “Abbandonarsi, nel mio caso specifico, alla lingua, alla parola e in definitiva alla vita”, come scrive in una delle sue ultime prose, la stupefacente Cassacco, anno zero (ora in Un prato in pendio, Rizzoli 2018). Abbandonarsi, ma senza rinunciare alla lotta, fino alla fine. Condannato da un male incurabile, aveva ancora la forza, reperita non si sa dove, di chiamare al telefono gli amici e leggere loro i suoi versi, “aria strappata centimetro per centimetro al vuoto”. Il canto lo salvò dall’annientamento. Viveva grazie alla poesia e attraverso la poesia: la poesia elementare che dà un nome alle cose, per noi, stupiti: “E c’è che vorrei il cielo elementare / azzurro come i mari degli atlanti / la tersità di un indice che dica / questa è la terra, il blu che vedi è il mare” (da Azzurro elementare).
Dove abitava Pierluigi Cappello, in quale terra? Meravigliosamente attardato, si riconosceva nell’ethnos del suo Friuli, anzi della sua Chiusaforte, il paese di confine dov’era cresciuto, a due passi dall’Austria: “una sottile linea di case infilate in un canale”. Testimone di un mondo scomparso, come quello descritto da Ferdinando Camon nel suo ciclo degli ultimi dedicato al Veneto dimenticato dal folle progresso e dai suoi stessi abitanti. Era “una cultura contadina e artigianale che sapeva sostenere con umiltà ma con occhi ben dritti e asciutti lo sguardo della vita e della morte… Per chi ha vissuto dentro quelle consuetudini millenarie, è un disagio innanzi tutto ritmico vivere la società contemporanea, “perché la parola subito non era contemplata, meno che mai la parola tutto e tutto e subito messe insieme suonavano come una dismisura inaudita”, ha scritto nella prosa Un dolore lungo un addio. Era un mondo di fatica, dolore, rassegnazione e umiltà, dignità e forza. Giovanni Raboni ha parlato di una “comunità dei vivi e dei morti”, per indicare una storia comune fondata sulla memoria.
Per questo Cappello scrisse anche in friulano, sulla scia del Pasolini di Poesie a Casarsa, e di tanti che ieri e oggi, dal grande patriarca Biagio Marin ad Amedeo Giacomini, a Mario Benedetti, a Ivan Crico, hanno scelto di esprimere la loro condizione di moderni nella lingua dei padri. Ma Cappello abitava anche Inniò, “in nessun dove”, secondo il poetico avverbio dell’antico friulano. “Fra l’ultima parola detta / e la prima nuova da dire / è lì che abitiamo” (da Azzurro elementare). Viveva nelle intercapedini, negli intervalli che gli concedeva il dolore, ma senza mai lamentarsi, anzi, a suo modo, come confidò all’amico Gian Mario Villalta, si sentiva un fortunato. Era consapevole, e misteriosamente grato, della sua avventura esistenziale: “Non ero io ad aver compiuto qualcosa, ma che ero stato portato a compimento” (Cassacco, anno zero). Si trattava di una vocazione a cui consegnarsi, “non per orgoglio del compito svolto / ma per orgoglio del compito” (da Stato di quiete, 2016). Era l’accettazione totale di chi scrive da un prefabbricato, insidiato dalla pioggia, “ma non sono che un uomo, e quest’uomo / ti scrive da un tavolo ingombro / e piove, oggi, e anche la pioggia ha le sue beatitudini / sulla casa dalle grondaie rotte / quando quest’uomo ti pensa e fra tutte le parole da scegliere / non sa che l’inciampo nel dire come si resta/ e come si preme / nel mistero del giorno nuovo in te / che prima non c’era / adesso c’è”.
Si volgeva allora al cielo, come durante gli ultimi giorni della malattia, quando dal letto girava lo sguardo a invocare spiragli di luce, come il bambino di Ungaretti ne Il dolore, alla ricerca di quell’azzurro che è stata la cifra più autentica della sua poesia, condizione del suo respiro. “Il suo io è la finestra stessa”, ha sostenuto Francesca Archibugi, che realizzò su di lui il film Parole povere. Il suo sguardo illuminava il mondo, come ha scritto di lui l’amica Susanna Tamaro.
Fu rallegrato, negli ultimi anni, dalla nascita della nipote Chiara. Per lei, “e per tutti i pulcini del mondo”, scrisse le bellissime poesie di Ogni goccia balla il tango. Per Chiara compose anche la commovente Lettera per una nascita, da parte di “un uomo di montagna / aperto alle ferite”, a cui piace “quando l’azzurro e le pietre si tengono”. “Chi appartiene al cielo non può che aspirare all’azzurro”, ha scritto Alessandro Fo nella splendida introduzione a Un prato in pendio (in cui compaiono anche i preziosi contributi di Gian Mario Villalta ed Eraldo Affinati, insieme all’accurata bibliografia di Anna De Simone, autentico angelo tutelare di Pierluigi). Nel libro si possono leggere anche le ultime straordinarie poesie, vergate nell’ospedale di Tolmezzo e poi nella casa di Cassacco, pochi giorni prima di lasciare questa terra, e si vorrebbe citarle tutte, tanto sono belle, per fare un regalo ai lettori. “Se chiudi gli occhi la senti sulle palpebre / e sembra la mano di chi ti vuol bene / a passare e tutto il male del mondo va via / con gli occhi chiusi mentre passa la mano. / E sei tu e il tuo respiro dentro alla brezza / e stai fermo e ti fidi come una pace / appena nata”.
Per ricordare il quarantesimo anniversario del sisma in Friuli, nel 2016, Cappello scelse di commentare un’immagine sbiadita, in bianco e nero: scorgiamo in primo piano un bambino, di circa dieci anni, più o meno l’età del poeta in quel tempo. Il bambino è accovacciato, solo, accanto alle macerie, intento a raccogliere su una pietra grande “una serie di pietruzze piccole”, per metterle “in una scatola di scarpe aperta proprio sotto la pietra”. Scrive il poeta: “è un gesto che mi commuove perché si colloca a metà strada tra il gioco e il lutto. Come se ricomponesse una salma, ha ricomposto un ordine nelle pietruzze, per consegnarle al silenzio, anzi: per consegnarle al sicuro del buio della scatola”. Cappello elegge questa foto a simbolo personale. “Quel suo modo, interamente umano, di mettere un po’ di ordine nel caos, concentrato come solo i bambini capaci di esserlo, è un modo dentro il quale mi riconosco; quella manina destra è la mia, è di tutti coloro che sono stati bambini allora, ed è un poco la notte e un poco l’alba. Noi, bambini di allora, siamo stati quello, il Friuli di allora è stato quello. Un po’ tenebra e un poco splendore”.
Il poeta è un infaticabile ricostruttore di città distrutte. Bisogna ricominciare sempre, ad ogni istante, come dice l’ultima poesia di Cappello:
Costruire una capanna
di sassi rami foglie
un cuore di parole
qui, lontani dal mondo
al centro delle cose,
nel punto più profondo
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