Mai come in questi ultimi giorni Pechino aveva inviato così tanti aerei militari a sorvolare lo spazio aereo di Taiwan, che per la Cina è solo una provincia ribelle: 56 jet militari, di cui 38 caccia J-16. “È importante capire in che momento temporale sia successo questo” ci ha detto in questa intervista Francesco Sisci, giornalista, sinologo, già inviato de La Stampa a Pechino e attualmente opinionista per tv europee e americane. “In Cina si sta celebrando la settimana di festa nazionale cominciata il 1° ottobre per la nascita della Repubblica popolare. È un chiaro segnale al proprio popolo che l’idea della riunificazione nazionale non è stata abbandonata”. A queste “incursioni” ha risposto nelle scorse ore con un articolo sulla rivista Foreign Affairs la presidente dell’isola, Tsai Ing-wen, con un tono drammatico e un monito al mondo a sostenere l’indipendenza dell’isola: “L’eventuale caduta di Taiwan per mano della Cina avrebbe conseguenze catastrofiche per la pace regionale e il sistema di alleanze democratiche. Segnalerebbe che nel contesto globale dei valori odierni, l’autoritarismo può avere la meglio sulla democrazia”.
La presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, lancia un chiaro avvertimento, dice che la minaccia di Pechino nei loro confronti “sarebbe il segno che l’autoritarismo può avere la meglio sulla democrazia”. Quanto è reale l’allarme provocato dalla Cina?
Bisogna dare una giusta dimensione alla situazione. Ci sono state sortite aeree militari cinesi, ma non sono state sopra l’isola, bensì a sud, nello spazio aereo dell’isola sul mare. Il che naturalmente non è che non significhi nulla, però è importante stabilire le gradualità di quello che sta succedendo.
In che senso?
Non ci sono stati aerei militari che hanno sorvolato, per capirci, la capitale Taipei; non è un episodio grave come sarebbe stato in questo secondo caso. Qualcosa è successo, ma non è certamente un atto di guerra. L’altro aspetto importante è capire quando accadono queste cose. Siamo nel periodo festivo del 1° ottobre, una settimana di festa nazionale in cui si celebra la nascita della Repubblica Popolare cinese. In qualche modo Pechino ha voluto indicare al suo popolo che si riprenderà Taiwan anche se non ha precisato un orizzonte, né alcun tipo di scadenza temporale.
Pechino ha sempre sottolineato il fatto che Taiwan è solo una provincia ribelle, in questo modo dando un aspetto fortemente patriottico alla volontà di riunificazione. Il fatto che gli aerei militari cinesi abbiano sorvolato lo spazio marino antistante l’isola non indica piuttosto che per Pechino ha maggior importanza lo stretto marino di Taiwan, che mette in comunicazione Oceano indiano e Mar Cinese meridionale?
No, non è più importante. Taiwan cederebbe il mare e si terrebbe l’isola? È l’isola che dà diritto al controllo del mare e non viceversa. C’è una gradualità delle cose che va rispettata; non facciamo di tutta un’erba un fascio, perché altrimenti fomentiamo la guerra.
Le due cose sono inscindibili?
No. Se i jet cinesi volassero sopra Taipei sarebbe più grave che se volassero sul mare. Certamente non è un bel gesto, comunque, ma c’è una differenza molto importante.
Perché allora il presidente Tsai Ing-wen lancia un grido così forte?
Questo è l’altro problema. Taiwan vuole usare questi episodi per rafforzare la sua indipendenza informale. Vuole sottolineare la minaccia cinese, che pure c’è, per dire agli americani: voi dovete stare dalla nostra parte, perché Pechino ci invade.
Gli americani cosa rispondono?
Washington fino a questo momento ha mantenuto quella che si può chiamare una ambiguità strategica.
Che cosa intende?
Non hanno espressamente dichiarato cosa farebbero nel caso di una ipotetica invasione cinese; questo avvantaggia e svantaggia. Taiwan naturalmente vuole spingere il più possibile l’America a essere chiara e a suo favore. Quello che vediamo, in realtà, è che c’è una situazione che con l’esperienza italiana degli anni 70 potremmo definire degli “opposti estremismi”: per semplificare, la minaccia vera o presunta di Pechino giustifica la protesta contro “gli attacchi” da parte di Taiwan e viceversa.
Biden però, nel momento in cui gli Usa hanno lasciato l’Afghanistan, ha espressamente affermato più volte che il loro interesse adesso si sposta nell’area Indo-Pacifica. È così?
Sì, ma giustamente non ha detto cosa farà di preciso con Taiwan. L’ambiguità strategica americana presenta vantaggi e svantaggi, ma certo al momento aiuta almeno a non far precipitare le cose. C’è senza dubbio una attenzione maggiore da parte americana, ma anche la volontà di non fomentare la tensione, che invece altri possono avere interesse ad alimentare’’’.
(Paolo Vites)
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