Non c’è dubbio: gli italiani restano sempre in attesa, con un po’ più fiducia, del possibile tentativo di recupero, di rilancio, di ripresa. Ma è tuttavia ancora difficile per tutti, in questi tempi, mettere sulla bilancia le speranze di ottimismo e il peso del pessimismo. C’è chi vede in giro soprattutto una voglia di ripartenza sociale in senso lato dopo il dramma del Covid-19 ed è un aspetto importantissimo, che investe il lavoro, la scuola, le relazioni sociali, la vita normale di tutti i giorni.
Ma nello stesso tempo c’è una sequenza di dati relativi a vari aspetti che spesso rimettono in discussione un rapido ritorno alla normalità, alla vita che ogni essere umano si aspetta.
È probabile che questa alternanza, che ci accompagna in questo periodo tra sfiducia e fiducia, la comprenderemo con più esattezza tra qualche anno. Capiremo cioè se la pandemia che ci ha investito, come tutto il mondo, è stata un’autentica svolta oppure è stata solo un’accelerazione di tendenze che erano in atto da tempo, almeno da 15 anni a questa parte e a cui occorre porre rimedio.
In genere, per dare un’immagine di quello che accade, si parte, per consuetudine acquisita, dal Prodotto interno lordo e dal rapporto con il debito pubblico. Sarà inevitabile toccare anche questo punto. Ma i discorsi sono vari in questo momento e riguardano diversi aspetti della vita sociale. C’è chi guarda, ad esempio, stupito e con preoccupazione, al fatto che l’Italia fa sempre meno figli. Il 2020 segnerà un record negativo che lascia letteralmente di stucco. L’anno scorso sono nati 404.104 bambini e sono morte 746.146 persone. In breve sintesi, il 2020 è uno dei primi anni in cui le nascite ammonteranno a quasi la metà delle morti. C’è una considerazione in più da fare: da nove anni a questa parte l’Italia è scivolata sotto i 60 milioni di abitanti. Ancora alcuni dati per inquadrare bene il fenomeno. Il 2020 sarebbe il 12esimo anno consecutivo di calo delle nascite e nel prossimo decennio si prevede che le nascite si fermeranno costantemente sotto le 400mila.
Facciamo solo un breve raffronto plurisecolare: nel 1862 (primo anno dell’Italia unita) le nascite furono 833.054: nel 1900 furono un milione e 67.376; nel 1918, tra la pandemia di “spagnola” e la guerra, le nascite furono 640.263; nel 1945 dopo la Seconda guerra mondiale nacquero 815.678 bambini. L’ultimo riferimento potrebbe essere il 1964, l’anno del baby boom, quando ci furono un milione e 16.120 nascite.
Sul problema della denatalità ci sono opinioni spesso differenti, tanto che si è assistito anni fa alla criminale “strage delle bambine” in Cina, dove si vietava alle famiglie di avere più di due figli. Tuttavia, nonostante l’aumento della popolazione mondiale, la nascita dei bambini sembra un fenomeno economico e sociale positivo, un atto di fiducia, di speranza nella vita, di ricambio lavorativo, di aiuto al welfare in generale, di coesione sociale per farla breve. Ci saranno pure distinzioni da fare, ma indubbiamente i numeri italiani sono inquietanti sotto tanti aspetti: lavoro, scuola, aiuto alle famiglie, tanto per citarne alcuni.
E qui c’è un primo problema da affrontare o quanto meno da programmare, anche se l’ultimo verbo in questo caso appare molto fastidioso, per usare un eufemismo. E il Covid, guardando i numeri, resta solo un’accelerazione dopo un lungo periodo. La denatalità sta diventando un problema indubbiamente. E lo è da molti anni, almeno quindici.
Ma dietro a questo, arrivano impietosi nuovi dati sulla povertà che danno l’idea di un periodo dove non si riesca proprio a sperare. Nel 2020 le famiglie in povertà assoluta sono oltre 2 milioni e solo nel 2019 sono cresciute di 335mila. Secondo una stima dell’Istat, nel 2020 si aggiungono ai poveri assoluti oltre un milione di persone. Certo, ci sono differenze nella povertà, ma non sono di certo piacevoli: ci si impoverisce di più al Nord, ma nel Sud la povertà resta sempre più alta. Resiste una differenza anche nel peggio.
È evidente che con questa povertà diffusa e crescente si registra un calo dei consumi, della spesa quotidiana, che rende la cosiddetta ripresa più fragile, come anche Mario Draghi ha detto recentemente. E poi, pur considerando l’accelerazione del Covid, che in questo caso si fa più sentire, il bilancio diventa sempre quello di un quindicennio che è andato male, dal 2005 dicono in tanti, quando la povertà è cresciuta e la crescita economica è sempre stata la più bassa in Europa e tra le più basse dei Paesi dell’Ocse. Un Pil che aumentava dello 0,5 o 0,7% era una modestissima costante che non ha risolto i problemi italiani, ma ha rischiato inevitabilmente di aggravarli rispetto a una sfortunata eventualità.
Di fronte a questi dati, è inevitabile ritornare a discorsi già fatti: il Pil crescerà di quasi il 10% in questi due anni, cioè ritornerà al 2019, che era sempre un anno di crisi.
eA questo punto è inevitabile inserire un altro discorso e un’ampia considerazione: i soldi che arrivano dall’Europa e la realizzazione del Pnrr, la figura di Mario Draghi unita all’inconsistenza dei partiti.
Quanto può durare questa situazione? Siamo usciti da una votazione di carattere amministrativo che riguardava grandi città come Milano, Roma, Napoli, Torino. C’è stata già una riconferma della sinistra, un arretramento della Lega, quasi un ridimensionamento del Movimento 5 Stelle, ma sono ancora tutti in attesa del risultato finale dei ballottaggi a Roma e Torino. Ma soprattutto, anche in questo caso, si è aggiunto un altro problema: uno vero e proprio sciopero elettorale di cittadini sfiduciati che evidentemente non trovano riferimenti validi nei partiti.
I giochi delle forze politiche, i litigi, le contrapposizioni sono quasi ininfluenti rispetto alla linea di Draghi che va avanti, per ora, senza dare molto peso a diatribe che dovrebbero essere chiarite con buon senso e senza impuntature legate alla campagna elettorale sempre in corso.
Rispetto a tutto questo si è appunto assistito in Italia a un nuovo record: nelle grandi città come Roma e Milano ha votato meno del 50%. Di fatto, il sindaco di Milano, che avrebbe stravinto, ha battuto anche il record storico di essere eletto con il 60% di circa il 48% dei votanti, cioè quasi un 20%. A Milano, nella città che è stata governata da sindaci come Emilio Caldara, Angelo Filippetti, Antonio Greppi e Carlo Tognoli, che ebbero ben altre percentuali e fecero di Milano quello che avevano detto i futuristi: “Una locomotiva sbuffante di un treno penisola”.
Intanto, mentre accade tutto questo, Draghi decide sempre e si va verso il ricambio della presidenza della Repubblica.
Sbaglieremo, ma forse, senza che nessuno lo dica, e aspettando passivi che maturino gli eventi, secondo consolidato costume italiano, siamo già sulla strada di una Repubblica presidenziale, democratica si spera, ovviamente, ma ben diversa da quella parlamentare a cui eravamo abituati. Alla faccia della partecipazione, potremmo almeno discuterne!
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