Il board del Fondo monetario internazionale – al termine della tradizionale sessione autunnale a Washington – ha confermato la fiducia al direttore generale Kristalina Georgieva. Quest’ultima, economista bulgara in carica dal 2019. era finita al centro di sospetti di non aver pienamente vigilato sulla diffusione di dati “gonfiati” sull’economia cinese nei rapporti-“bibbia” dell’Fmi.
Richieste perentorie di chiarimento erano giunte soprattutto da Usa e Giappone. Invece Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia hanno fatto gruppo nell’allinearsi con Russia e Cina nel ribadire il sostegno al direttore generale. Che alla fine è giunto senza rotture, anche se dopo forti tensioni. Solo nelle prossime settimane sarà comunque possibile decrittare le dinamiche di un passaggio che ha molte sembianze di un “gioco di guerra”: non troppo dissimile da quello andato in scena poche ore prima sui cieli di Taiwan, virtualmente invasi da 156 caccia cinesi.
Non pare difficile, tuttavia, vedere fin d’ora nell’“esibizione muscolare” degli Stati Uniti una mossa tattica, politico-mediatica, nella “confrontation” con Pechino: peraltro in pieno svolgimento a molti livelli diplomatici e informali (e sul tavolo resta anche il sospetto di manipolazione cinese dell’Organizzazione mondiale per la sanità nelle misure di contrasto della pandemia-Covid). Lo stesso allineamento del Giappone appare del tutto scontato. Conferma semmai che l’“occhio del ciclone” del quadro geopolitico resta la Cina: verso la quale Usa e Gran Bretagna hanno appena dato vita, all’improvviso, all’iniziativa militare “Aukus” ufficialmente a protezione dell’Australia.
Proprio il caso Aukus, del resto, può essere utile a leggere altri versanti della “crisi virtuale” al vertice Fmi. La Gran Bretagna, appena uscita dalla Ue e riproiettata verso le storiche “relazioni speciali” con gli Usa, ha preferito nell’occasione allinearsi con i big della Ue in una posizione che al momento non sembra tuttavia facile definire. Europa “mediatrice” o “neutralista/terzaforzista” fra Usa e Cina?
Londra, verosimilmente, ha voluto lanciare un segnale articolato: tendenzialmente distensivo – anzitutto – con Bruxelles, con la quale il post-Brexit è ancora tutto da condividere. Ma non è mancata, certamente, un’attenzione specifica per la Francia: a sei mesi dalle presidenziali, Emmanuel Macron è stato “schiaffeggiato” da Aukus, che ha scippato a Parigi una maxi-commessa di sommergibili dall’Australia.
Un fronte europeo apparentemente ricomposto per evitare rotture fra Usa e Russia-Cina sembra comunque indicativo di altre dinamiche complesse: più direttamente riferibili alla crisi indubitabile della Ue odierna e soprattutto alle prospettive di sua ricostruzione politico-istituzionale.
Anzitutto: Georgieva è stata, dal 2010 al 2016, commissaria Ue, indicata da Sofia sia nella commissione Barroso che in quella Juncker (di cui è stata vicepresidente). Dal 2016 al 2019 è stata direttore generale della Banca Mondiale, il braccio operativo del Fmi. La chiamata a entrambi i ruoli di un’economista-tecnocrate formatasi fra Usa e Gran Bretagna, ma provenendo da un Paese entrato nella Ue post-1989, era sembrata inserirsi in una chiara prospettiva evolutiva delle grandi istituzioni finanziarie globali partorite a Bretton Woods nel 1944. Il “patronato” degli Usa sul Fondo – formalmente tuttora in vigore – è stato sempre temperato nei fatti dalla nomina di un direttore generale con il passaporto di un Paese dell’Europa occidentale: l’ultima è stata la francese Christine Lagarde, designata due anni fa presidente della Bce. L’uscente Mario Draghi aveva declinato sul nascere sondaggi iniziali su un suo possibile approdo a Washington, dove nessun italiano è mai stato direttore generale Fmi.
Georgieva ha significativamente prevalso nel ballottaggio 2019 con l’olandese Jeroen Dijsselbloem, figura di stretta osservanza eurocratica “in salsa tedesca”. Il passaggio è stato nei fatti una propaggine del tormentato riassetto degli organigrammi Ue dopo il voto 2019. La candidatura Georgieva all’Fmi è sembrata rispondere all’esigenza di tenere agganciati alla “core Europe” i Paesi dell’Est, in un quadro di tensioni crescenti. La Bulgaria è oggi guidata dal premier Bojko Borisov, il cui partito (Gerb) è europeista e aderisce al Ppe, in posizione ben distinta, dunque, dal crescente anti-europeismo di Ungheria e – ultimamente – Polonia. Non da ultimo: Georgieva è molto accreditata anche in Russia, avendo trascorso a Mosca periodi di ricerca economica. Una figura, quindi, molto funzionale al modus operandi di Angela Merkel, “cancelliere d’Europa” uscente. In parte con lo stesso approccio, Merkel aveva favorito nel 2011 l’ascesa alla Bce di Draghi – governatore Bankitalia, presidente del Financial Stability Board, membro del G-30, molto stimato nella City – frenando le ambizioni interne dell’allora governatore della Bundesbank, Axel Weber.
Da due settimane, tuttavia, Merkel non è più la “prima inter pares” fra i leader Ue. Il suo successore (probabilmente il leader Spd, Olaf Scholz) non c’è ancora, non è certo che sarà in carica prima di Natale e lo sarà (forse) con una maggioranza fra socialdemocratici, liberali e verdi, in netta discontinuità rispetto all’ultima “grande coalizione” a guida Cdu-Csu. Non c’è quindi ancora un pilota-Ue erede credibile della Merkel, che rappresenterà ancora Berlino all’atteso G-20 di Roma fra tre settimane. Se non proprio un “patto 3+1”, la sintonia dei quattro big europei dell’Fmi a supporto di Georgieva sembra dunque di per sé una scelta (positiva) di “cautela attiva”.
In attesa del passaggio politico tedesco – e fra poco di quello francese – la Ue (con l’Italia di Draghi su un piede di parità con Francia e Germania) e la Gran Bretagna paiono condividere l’esigenza di stemperare e superare tensioni geopolitiche già fonte di crisi evidenti (a cominciare dal brusco rialzo dei prezzi energetici). Il nervosismo della stessa Cina è in buona parte addebitabile a pesanti involuzioni economiche interne, con ripercussione sugli assetti di potere incentrati sul paramount leader Xi Jinping. L’Fmi non può essere “disinserito” proprio ora nella sua funzione istituzionale di “Onu dell’economia” e di stabilizzatore multilaterale delle crisi finanziarie. Esattamente come non può essere depotenziata “al buio” la Nato. Ma almeno su questo il presidente americano e i leader europei paiono avere (ancora) le idee chiare.
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