Lunedì scorso l’esercito nazionale etiope ha infranto la tregua che vigeva dallo scorso giugno, lanciando una nuova, pesante offensiva nel Tigray, esattamente nella zona settentrionale di Amhara che era stata conquistata dai ribelli del Fronte di liberazione del Tigray. Una guerra che va avanti dal novembre 2020 con conseguenze drammatiche: secondo le Nazioni Unite, oltre 400mila persone hanno bisogno di aiuti umanitari urgenti. Aiuti che in realtà ci sono, ma sono bloccati ai confini tra Tigray e Etiopia con le due parti in lotta che si accusano a vicenda di questa situazione. Secondo Mussie Zerai, sacerdote eritreo che vive in Italia e dal 1995 si occupa di migranti e di rifugiati politici dall’Eritrea e dall’Etiopia, come ci ha detto in questa intervista, “il governo etiope vuole prendere il Tigray per fame, riducendo la popolazione civile allo stremo, ma questa è una violazione di ogni più elementare diritto umano”. Governo che, lo ricordiamo, è presieduto per la seconda volta consecutiva, dopo le ultime recenti elezioni, da un Premio Nobel per la pace, il primo ministro Abiy Ahmed.
L’esercito etiope ha infranto la tregua che era in atto. Con quale motivazione?
Evidentemente il nuovo governo che si è insediato a inizio ottobre con la rielezione a primo ministro di Abiy Ahmed, che ha ottenuto un successo plebiscitario, si sente più forte e vuole liberare le zone occupate dalle milizie tigrine che sono stanziate nella regione dell’Amhara. Vorrà chiudere i conti definitivamente con il gruppo dirigente del Tplf (Fronte popolare per la liberazione del Tigray, ndr). Purtroppo chi paga il prezzo più alto è la popolazione civile sia del Tigray che dell’Amhara: chi ci va di mezzo in un conflitto sono sempre i civili.
La stessa Etiopia, però, risulta essere in una crisi economica molto grave, appesantita proprio dalle spese militari.
Sì, l’inflazione continua a salire, i prezzi dei beni di prima necessità sono diventati carissimi, molta gente è in difficoltà anche nella capitale Addis Abeba. Io come sempre sono in contatto con i rifugiati eritrei in Etiopia e mi dicono che non ce la fanno più a pagare gli affitti e il cibo necessario. È tutto quasi triplicato. Nel Tigray invece si fa proprio la fame, oltre 400mila persone sono costrette a nutrirsi di radici di piante: è assurdo sentire che nel terzo millennio ci sia gente che muore di fame.
Gli aiuti umanitari ci sono, ma i camion delle Nazioni Unite dallo scorso agosto sono bloccati ai confini. Per colpa di chi?
Difficile poterlo dire da qui, a migliaia di chilometri di distanza, però qualcuno deve far sentire la voce e far ragionare le due parti. Non si può assistere passivamente a uno scenario dove la gente muore di fame. Non è accettabile con tutti i mezzi che si sono – si potrebbero per esempio lanciare aiuti con gli aerei – che non si trovino altre vie. Non si possono isolare 4-5 milioni di persone per ridurle alla fame al fine di costringerle alla resa. Non si può fare uso politico della fame, cibo e acqua sono beni primari che non si possono usare come armi.
Anche la Chiesa ha sospeso gli aiuti alla Caritas?
Nel Tigray c’è una diocesi che sta cercando di fare quello che può, ma se non arrivano aiuti diventa impossibile rispondere ai bisogni della gente. L’arcivescovo di quella diocesi a inizio settembre ha scritto una lettera chiedendo aiuto al mondo intero. Donne e bambini continuano a bussare alla sua porta chiedendo aiuto, ma cosa può fare?
Siamo davanti all’ennesima guerra dimenticata dal mondo occidentale?
È così, il mondo occidentale è occupato da tutt’altri problemi, adesso si parla solo di Afghanistan, ma il Corno d’Africa è stato dimenticato, a maggior ragione la situazione nel Tigray. Si sono accavallati tutta una serie di problemi come siccità, carestie, locuste. I militari hanno bruciato volontariamente i campi con quel poco di raccolto che c’era, i depositi di cibo sono stati razziati. Volutamente si vuole ridurre quella regione alla fame: è un crimine contro l’umanità.
(Paolo Vites)
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