Sette anni sono un arco temporale di attesa decisamente lungo. Ne sanno qualcosa i fanatici di criptovalute, in trepidante attesa di una parola definitiva da parte della Sec rispetto al lancio del primo Etf basato su futures di Bitcoin negli Stati Uniti. L’attesa pare terminata, perché con un tweet decisamente criptico rispetto alle cautele necessarie prima di investire in tale strumento, l’ente regolatore del mercato statunitense sembra aver dato luce verde all’avvio del trading del fondo gestito da ProShares e Invesco Ltd la prossima settimana. Non a caso, le valutazioni di tutte le valute digitali nella notte fra giovedì e venerdì sono letteralmente esplose al rialzo.
L’ultimo bastione di resistenza dello status quo verso la rivoluzione cripto è caduto? Attenzione a giudicare il libro dalla copertina. Primo, occorre sempre attendere l’ufficialità della decisione. Secondo, ricordiamoci il momento che stiamo vivendo: inflazione fuori controllo (quantomeno rispetto alle risposte che le Banche centrali possono permettersi di mettere rapidamente in campo), bolle sparse su tutte le asset classes, timori sul contagio dell’immobiliare cinese e formale inizio del taper della Fed ormai ufficialmente alle porte. Tradotto, la puzza di capro espiatorio si fa davvero forte. Se infatti qualcuno stesse cercando l’alibi perfetto per cogliere i proverbiali due piccioni con una fava, eccolo servito.
Primo, spalancare le porte del trading mainstream e di massa a Bitcoin e soci su circuito regolamentato garantisce un detonatore perfetto per una crisi sistemica di mercato, quantomeno partendo da almeno due punti fermi. La volatilità enorme di quegli assets e quanto ci mostra questo grafico, dal quale si evince una poco rassicurante realtà emersa da uno studio compiuto da MSCI sulle biografie di circa 6.500 membri di board aziendali. Soltanto 79 dirigenti in 64 aziende vantano infatti nel loro curriculum riferimenti diretti alle criptovalute o alla blockchain, mentre 1.114 fanno riferimento alla cyber-security e addirittura 5.155 al risk management. Insomma, si sta per spalancare la porta del cosiddetto big buck, il controvalore di investimento da veri players, a un mondo che gli stessi vertici di moltissime aziende di fatto non conoscono.
E il medesimo studio di MSCI mette ulteriormente tutti sull’avviso: almeno 52 aziende che rappresentano una capitalizzazione di mercato di circa 7,1 trilioni di dollari hanno esposizioni diretta o indiretta – già oggi – a Bitcoin e altre criptovalute. Si va da investitori all-in nel settore come Coinbase a diversificatori di bilancio come Tesla o MicroStrategy fino a collateralisti del settore servizi legato all’universo cripto come JP Morgan. Insomma, c’è il fondato rischio che si stia maneggiando con eccessiva spericolatezza un materiale potenzialmente esplosivo ed enormemente instabile.
Perché allora la Sec sembra aver dato via libera al trading di massa su questa asset class, dopo mesi e mesi di criminalizzazione da parte di Banche centrali e regolatori di mezzo mondo? Ed ecco il secondo piccione potenzialmente a rischio di essere catturato: se infatti l’incidente controllato che Bitcoin potrebbe scatenare garantirebbe mano libera a nuovo Qe emergenziale e toglierebbe dalla lavagna dei cattivi chi finora ha saputo solo creare bolle e un’ondata inflazionistica che porterà a un aumento del 30% delle bolletta del riscaldamento negli Usa per questo inverno (ovvero, le Banche centrali), un collasso di mercato chiaramente imputabile alla natura volatile e speculativa di Bitcoin sarebbe perfetto anche per rovinare del tutto la reputazione da nuovo bene rifugio delle criptovalute, svergognandone con il massimo clamore la lettera scarlatta che portano sul petto. E riabilitando di colpo le monete fiat, terminate nel mirino delle critiche per il loro valore intrinseco ormai pari alla carta igienica, stante i ritmi di stampa da parte delle Banche centrali.
E perché sarebbe così necessario in questo momento ottenere l’effetto collaterale del danno reputazionale? Perché proprio il giorno prima dello strano tweet della Sec, Vladimir Putin aveva clamorosamente aperto alle criptovalute come assets, di fatto lasciando intendere che il mining che sta scappando a gambe levate dalla campagna regolatoria cinese potrebbe trovare una nuova patria di elezione in Siberia, El Dorado in pieno sviluppo dell’industria cripto anche grazie all’enorme disponibilità energetica a costi relativamente bassi. E lo Zar ha detto anche di più: rinviando al futuro una discussione pratica al riguardo, l’inquilino del Cremlino non ha infatti escluso a priori un domani la possibilità di denominare a livello globale il mercato dei fututes petroliferi in criptovalute invece che in dollari. Guarda caso, la Sec – dopo sette anni di attesa – ha deciso di rompere cripticamente gli indugi con il suo tweet, quasi a voler mettere in gioco la pallina del flipper e vedere dove va a finire.
Siamo nel pieno di un’enorme fase di transizione geofinanziaria e geopolitica globale, uno di quei periodi spartiacque che si presentano una volta ogni 100 anni. Forse anche di più. Per questo lo status quo getta disperatamente sul tavolo tutte le carte destabilizzanti a sua disposizione, dallo spauracchio della Lehman cinese a quello del risorgente fascismo in Europa fino alla rivoluzione verde come unico architrave attorno a cui costruire il futuro dell’indebitamento sistemico dal volto umano.
Attenzione, ogni giorno porta con sé la sua cortina fumogena. Occorre stare attenti, vigili e informati. E seguire sempre il vecchio, caro consiglio di analisi: operare come con la Settimana enigmistica, unendo i puntini. Buon weekend.
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