Nel 1977 l’arrivo de I Duellanti sul grande schermo segnò l’inizio della carriera registica di Ridley Scott, autore che negli anni ha saputo spaziare tra la fantascienza (Alien, Blade Runner, The Martian) al dramma storico (Il Gladiatore, Le Crociate), lasciando un segno in entrambi i generi. Verrebbe quasi da pensare che con The Last Duel il regista inglese voglia chiudere un cerchio cominciato quarantaquattro anni fa, se non fosse che alla veneranda età di ottantasette anni è riuscito nell’impresa di girare due film nell’arco di un solo anno, questo e House of Gucci, in uscita nelle sale il mese prossimo. Ridley Scott non ha minimamente intenzione di fermarsi, e dopo una lunga attesa dovuta alla pandemia abbiamo finalmente modo di assistere alla prima metà del suo ultimo sforzo creativo.
Guerra dei Cent’anni, Francia: l’amicizia tra l’orgoglioso Jean de Carrouges (Matt Damon) e lo scaltro Jacques le Gris (Adam Driver) si incrina in seguito a una serie di disgrazie, tradimenti e giochi di potere. Questa rivalità crescente tra i due culmina nel presunto abuso da parte di Jacques della moglie di Jean, Marguerite de Thibouville (Jodie Comer), e nell’ultimo duello legale per determinare l’esito del processo.
Chi detiene la verità, accusatore o accusato? E se la vittima fosse ben più di una semplice pedina del fato? Ha importanza chi sia nel giusto o nel torto, quando la disputa verrà decisa dalla forza dei due guerrieri?
Sono queste le domande poste in The Last Duel, che pur basandosi su una storia vera si ispira in maniera evidente a Rashomon, non solo nel trio di protagonisti – i cui ruoli richiamano quelli dei personaggi del film di Kurosawa – ma anche e soprattutto nella scelta di mostrare gli eventi da tre punti di vista diversi, che scandiscono il dipanarsi dell’intreccio sotto forma di capitoli.
Prima di commentare questa scelta narrativa è il caso di soffermarsi sull’aspetto visivo della pellicola: Ridley Scott ha sempre avuto un occhio di riguardo per la raffigurazione degli ambienti urbani, che fossero la metropoli distopica di Blade Runner o la Roma antica de Il Gladiatore, e la Francia medievale di The Last Duel non fa eccezione. Ogni inquadratura che si sofferma sull’ambientazione è colma di vita, movimento e colore, torri imponenti e arene maestose si alternano e si mescolano a realtà rurali. La scenografia infatti non è solo un elemento di contorno, ma serve a contestualizzare sia il periodo storico – la Parigi di fine 1300 è poco più di un villaggio – sia la caratura dei protagonisti, in particolare dei due duellanti – che si atteggiano a grandi nobiluomini ma in realtà sono semplici scudieri, alla mercé di uomini più potenti di loro. Per quanto questa cura non si traduca sempre in accuratezza storica, il lavoro fatto sui costumi, sugli arredi e sui luoghi rende il film visivamente d’impatto.
Altrettanto impressionante è il lavoro di regia, particolarmente nelle scene relative al duello che dà il titolo al film. L’introduzione del film riprende il momento della vestizione, un classico della narrativa epica, ma i preparativi dei due guerrieri sono intrecciati a quelli di Marguerite, sottolineando il suo ruolo di centro emotivo e vera protagonista dell’opera. Non è sorprendente che in un’opera di Scott la protagonista femminile sia ben più di un oggetto del desiderio – si pensi alla Ripley di Alien -, ma qui il personaggio della Comer si dimostra il più sfaccettato, e viene ulteriormente valorizzato dall’interpretazione dell’attrice. Il suo capitolo/punto di vista è quello privilegiato e, comprendendo al suo interno la risoluzione della vicenda, risulta di gran lunga più interessante degli altri. Un plauso va anche a Matt Damon, il cui sfortunato Jean de Carrouges riesce a ispirare compassione pur risultando avventato e pieno di sé; buoni Adam Driver, il cui Jacques de Gris in fin dei conti non è particolarmente approfondito, e Ben Affleck, il cui conte Pierre è un antagonista viscido ma alquanto caricaturale, un connubio in questo caso non del tutto vincente.
Pur essendo notevole dal punto di vista visivo, interpretativo e registico, la scelta di girare la pellicola suddividendola in tre diversi punti di vista finisce purtroppo per penalizzarla. Mentre Rashomon era un film contenuto, dalla trama semplice e interamente basato sull’ambiguità, The Last Duel è invece complesso, lungo, e illustra tre versioni dei fatti che non differiscono particolarmente l’una dall’altra. La conseguenza è che il primo terzo, incentrato su Jean de Carrouges, consiste in un riassunto frettoloso di buona parte del film: Matt Damon viene sbalzato come in un flipper da una location all’altra, in sequenze a cui non è permesso durare più di cinque minuti perché poi dovranno essere riprese dagli altri punti di vista. Questa rapidità va a inficiare sulla caratterizzazione dei personaggi – la fine di un’amicizia è messa in scena attraverso l’equivalente di un montaggio in stile Rocky -, sulla chiarezza delle immagini – assistiamo a due battaglie talmente incomprensibili che devono dirci chi ha vinto e chi ha perso in separata sede – e sui dialoghi, densi di esposizione e privi delle pause tipiche di una conversazione tra esseri umani. Il secondo terzo, dedicato a Jacques de Gris, si propone di mostrare come tanto il carattere di un uomo quanto il contesto in cui vive contribuiscano a plasmarne le azioni; un’indagine intrigante, ma appesantita e resa superficiale dalla necessità di reiterare scene già mostrate, anche quando la versione del personaggio di Adam Driver coincide con quella mostrata in precedenza.
Se i primi due terzi risultano difficili da digerire, l’ultima parte per certi versi riscatta l’intera pellicola, mostrando gli eventi dal punto di vista di Marguerite, il processo e il duello. Forse lo stacco tra questo atto finale e ciò che viene prima è dovuto al modo in cui è stato scritto il film: Ben Affleck e Matt Damon, che avevano già lavorato assieme allo script di Good Will Hunting, hanno scritto le prospettive maschili, mentre Nicole Holofcener ha sceneggiato quella femminile. Ciò non vuol dire che i due attori e amici abbiano svolto un lavoro inferiore, ma è evidente che Ridley Scott era molto più interessato a raccontare la storia di Marguerite che dei duellanti. Nonostante ciò il loro scontro rimane una delle sequenze più emotive e viscerali della pellicola mettendo in scena tecniche di combattimento storicamente utilizzate e permettendo a uno dei due di riscattarsi in extremis.
Tornando alla protagonista femminile, uno dei motivi per cui la sua parte è quella che rimane più impressa sono i mille parallelismi tra il suo caso e quelli che continuano a dover affrontare centinaia di donne dei nostri giorni: una società che tende a criticare più la vittima che il colpevole, un processo giudiziario tanto stressante e indelicato da far quasi desistere l’accusa, un marito che rinfaccia il “disonore” a chi è innocente, autorità che antepongono gli interessi dei propri membri alla giustizia. La dinamica del processo e delle difficoltà a cui va incontro il personaggio della Comer avrebbe potuto – e forse dovuto – occupare l’intera pellicola, approfondendo quelle dinamiche che, pur calate in un contesto medievale, risultano tristemente rilevanti tuttora.
Purtroppo la scelta di mandare un messaggio di empowerment si scontra con la realtà storica della pellicola: “La donna che sfidò una nazione e fece la storia” – è quanto scritto sulla locandina – vede il proprio destino riposto nelle mani del marito, il cui successo o fallimento non ha niente a che fare con la fondatezza dell’accusa, e la sua decisione di sporgere denuncia, per quanto encomiabile, viene giudicata secondo una sensibilità moderna e non del tutto coerente con un contesto medievale. Nonostante ciò, e a dispetto di scelte di sceneggiatura che non hanno pagato, The Last Duel rimane un film le cui tematiche e la cui fattura colpiscono più di molte altre opere uscite negli ultimi tempi; un po’ meno Rashomon, un po’ più I Duellanti e sarebbe stato un autentico capolavoro.
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