I recenti terribili attentati condotti dall’Isis-K in Afghanistan, la strage alla moschea scita di Kandahar preceduta dall’attacco al luogo sacro anch’esso scita di Gozar-e-Sayed Abad, nella provincia nord-orientale di Kunduz, hanno provocato decine di morti e feriti e pongono alla comunità internazionale interrogativi inquietanti.
Non solo in Afghanistan al potere ci sono i talebani, non solo le prigioni sono state aperte e migliaia di affiliati di al Qaida e all’Isis-K sono tornati in circolazione, ma adesso senza le truppe americane e della coalizione l’Isis si è riaffacciata in modo preoccupante sulla scena. I motivi della rivalità violenta tra le due organizzazioni musulmane sono complessi e articolati.
L’Isis-K aveva fatto la sua comparsa in Afghanistan nel 2015 con il nome di Stato Islamico del Khorasan, enorme area geografica, un tempo provincia iraniana, a cavallo di Iran, Afghanistan, Pakistan, Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan. E questa è la prima differenza, mentre i talebani erano interessati a cacciare lo straniero fuori del paese e ad installarsi al governo dell’Afghanistan, lo Stato Islamico del Khorasan si pensa come una parte del Califfato da ricostruire, quindi come provincia di un futuro grande impero islamico dal Mediterraneo all’Oceano Indiano, all’Asia Centrale.
In secondo luogo, a fare la differenza, è il credo religioso. Se in partenza il movimento sunnita si distingueva per volere un ritorno ad un Islam puro e originario, adesso si distingue per l’obiettivo, il ripristino del Califfato appunto, e per la scelta della guerra santa, armi in pugno, come unico mezzo di lotta, unita ad una visione estremamente settaria.
L’accusa strategica ai talebani è precisa: collaborazionismo con il grande satana, con gli Stati Uniti e l’Occidente. Gli obiettivi politici chiari: dimostrare che il nuovo governo di Kabul non riesce a mantenere la sicurezza, portare l’Afghanistan al collasso in modo da riuscire a costruire una nuova base operativa dopo le sconfitte siriane e irachene, che hanno significato anche l’uscita di scena del leader Abu Bakr al-Baghdadi nel 2019.
L’Isis, seppur importato, ha avuto subito un grande successo in Afghanistan tra la gioventù più istruita delle città, spesso non pashtun, a causa della sua radicalità ispirata alla ricerca di un Islam originario, e della sua capacità di offrire una visione più ampia, internazionale, alla lotta santa. Le sue aeree di intervento sono state il Pakistan e l’Afghanistan ed i suoi metodi di lotta, come ricordato nell’intervista a Stefano Piazza, sono sempre gli stessi di quelli usati in Iraq: provocare una guerra settaria, in Pakistan attaccando i sunniti sufi, in Afghanistan prendendo di mira gli sciiti.
La sua capacità militare negli anni è cresciuta, grazie al reclutamento di quadri provenienti dalle file di al Qaida, suo diretto competitor, e dei talebani. Ma notevoli sono anche le alleanze costruite con altri gruppi armati sul piano ideologico, logistico e operativo – gli esperti hanno contato relazioni con ben undici gruppi armati che operano tra Pakistan, Afghanistan e Tagikistan. In ultimo non bisogna dimenticarsi che la guerra costa, e che attori non statali come l’Isis sono costretti a ricorrere a qualsiasi fonte di finanziamento, compresa la collaborazione con la criminalità organizzata locale e internazionale. Eserciti di militanti per cui la guerra spesso diventa, al di là dei motivi ufficiali, il fine non dichiarato, perché è con le armi che ci si procaccia da vivere e che si acquista prestigio sociale in una società devastata come quella afghana.
Ma dopo un iniziale successo, l’Isis-K dal 2018 ha subìto in Afghanistan una serie di sconfitte dovute all’azione congiunta, forse anche concordata, tra americani, esercito afghano e talebani. Stretti in una duplice morsa, dal cielo l’aviazione Usa e da terra gli afghani, i partigiani del califfo furono costretti ad una serie di ritirate. Si calcola che alla fine del 2020 ben 1.500 combattenti con le loro famiglie si siano arresi al governo di Kabul.
Ma adesso con l’uscita di scena degli americani, le cose sono cambiate. E la strategia Isis-K si è fatta sempre più raffinata. Nel frattempo i suoi membri si sono infiltrati nelle istituzioni, sono aumentati gli attentati mirati e le intimidazioni a giornalisti, a politici e a leader religiosi moderati. Inoltre hanno puntato anche ad acuire le divisioni all’interno dei talebani, cercando di sfruttare la frattura tra i “moderati” che aderiscono ad una lettura del Corano non letterale, ma secondo la scuola giuridico-religiosa hanafita, e chi invece è vicino alla rigida ideologia wahabita, matrice del salafismo jihadista.
Adesso per il governo di Kabul il problema è di difficile soluzione. Se ricorre a forze esterne per combattere l’Isis-K, dimostra di non essere autosufficiente, e allo stesso tempo di tradire i suoi valori, cioè di allearsi con gli infedeli contro altri musulmani. Ma se non sconfigge l’Isis-K, velocemente rischia di veder precipitare il paese nel caos.
Per la comunità internazionale, compresi i paesi confinanti, dal Pakistan alla Cina, dallo stesso Iran all’India, il pericolo è chiaro, quello della creazione di una base terroristica, per usare un eufemismo, ai loro confini ben più pericolosa, perché con mire internazionali, e destabilizzante dei talebani, che comunque hanno interessi locali.
La conclusione è sempre e solo una: nessuna grande potenza da sola può pensare di gestire una crisi di questa portata. Solo la ricerca di una soluzione concordata con i paesi confinanti potrà avere una qualche possibilità di successo. E in questa direzione sembra che vadano, ma è presto per dirlo, le cose.
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