Angelo Licheri è morto. C’è una luna piena di giugno che occhieggia disperata da più di quarant’anni dal fondo del pozzo artesiano di Vermicino, estrema periferia di Roma. Una luna col nome dolce e il viso spalancato al sorriso di Alfredo. Meglio: per tutti coloro che c’erano, allora, nella campagna romana proiettata sugli schermi tv di tutta Italia, semplicemente Alfredino.
Ci sono tragedie epocali che si attaccano alla storia degli uomini immersi nel contesto sociale: guerre, terremoti, ingiustizie, violenze. Quante, in questi quattro decenni soltanto? I mass media hanno invaso a tal punto la nostra quotidianità che facciamo persino fatica a ricordarne nomi e luoghi che pure ci avevano scossi solo pochi giorni prima. Ma da quel giugno 1981, per tutti Vermicino rimane senza indugio la tragedia di un bimbo di sei anni travolto da un destino inspiegabile, allora come oggi. Allontanatosi dalla casa dei nonni (forse per quell’innato desiderio di avventura che nella mente dei piccoli trasforma un prato, un boschetto, un rivo d’acqua a due passi dal traffico in un mondo magico che nasconde un tesoro) e caduto prima per una quarantina di metri, poi fino a sessanta metri in un cunicolo di pochi centimetri di diametro scavato anni addietro per cavarne acqua. Sessanta metri, non seicento, eppure sufficienti (per l’imperizia, la superficialità, l’incompetenza, persino una generosità mal governata ed abbandonata all’improvvisazione che travolse gli uomini del soccorso lungo tre giorni di inutili, anzi dannosi tentativi di recupero) a perderlo per sempre.
Per la prima volta nella loro storia, i mezzi della Rai coprirono in un interminabile ed angosciante collegamento quell’innocente morte in diretta. Le invettive di chi accuserà d’impreparazione i soccorritori e le polemiche di chi alzerà il dito contro la spettacolarizzazione della tragedia riempiranno le cronache nei giorni successivi a quel 13 giugno, data presunta dell’ultimo respiro di Alfredino.
Invece, in quell’ultimo fine settimana di primavera macchiata dal sangue versato da Giovanni Paolo II in piazza San Pietro e dal voto popolare largamente favorevole all’aborto di Stato, gli italiani si ritrovarono uniti al di là delle ideologie, delle divisioni sociali, delle appartenenze religiose e politiche. Contava solo la realtà e la realtà urlava l’impotenza dell’uomo di fronte al destino. L’“io sono mia” delle donne abortiste, gridato nelle piazze invase appena un mese prima, era chiamato a fare i conti con Vermicino. “Non è senza senso che, a un mese dal no detto alla vita attraverso la riapprovazione dell’aborto legalizzato, gli italiani siano stati indotti o costretti a meditare sul valore della vita da un bambino che gemeva chiuso in un pozzo, come nel ventre di qualcuno o qualcosa che non gli volesse più concedere respiro, luce e vita” scrisse Giovanni Testori sul settimanale Il Sabato del 20 giugno in un memorabile articolo dal titolo “Nel pozzo la luna era un bambino”.
Ieri, la notizia della morte dopo lunga malattia di Angelo Licheri, l’unica persona che, grazie alla sua magrezza, era riuscita a raggiungere Alfredino prima che circostanze avverse (il fango viscido, l’imbragatura che non ne regge il peso, la rottura di un polso del piccolo) lo costringessero a lasciare la presa dopo oltre mezzora a testa in giù (il doppio del consentito dai medici), ha riaperto una ferita mai del tutto rimarginata. Perché noi giovani e meno giovani di allora vivemmo il dramma come nostro, intimamente nostro e l’impossibilità di risolverlo come un nostro fallimento personale. Ciascuno di noi era Alfredino. E un pò Angelo Licheri.
Non esistono parole, nemmeno oggi, per descrivere l’angoscia negli occhi di mamma Francesca riversa sulla bocca del pozzo, papà Ferdinando poco distante: anni dopo, era il maggio 2015, perderanno anche l’altro figlio, Riccardo, morto d’infarto a 36 anni. “Sono rimasto laggiù insieme a lui”, disse un giorno Angelo Licheri in un’intervista. A ben pensarci, anche qualcosa di noi è rimasto per sempre laggiù. Insieme ad una luna di primavera, chiara e lucente, che ha nome Alfredino.
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