Sembra un po’ di tornare alla purezza del cinema primitivo con Petite maman, il nuovo film di Céline Sciamma presentato ad Alice nella città durante la Festa del cinema di Roma e in uscita oggi – 21 ottobre – nelle sale (prima di approdare sulla piattaforma Mubi). Perché in questo piccolo e infantile film il valore dell’inquadratura sembra di nuovo assumere quella forza essenziale che aveva quando le parole al cinema non c’erano ancora.
Il film racconta la storia di Nelly, una bambina che torna nella casa della nonna il giorno dopo la sua morte, per aiutare la mamma e il papà a svuotarla prima della vendita. Giocando nel bosco adiacente scopre una bambina vicina di casa, identica a lei, che le permette di fare un viaggio nel passato.
Sciamma, anche sceneggiatrice, realizza questa piccola (durata inferiore ai 75 minuti) fiaba sentimentale guardando alla delicatezza dei film dello Studio Ghibli (Pioggia di ricordi, Il mio vicino Totoro) e al cinema ad altezza bambino, affidandosi a un modo immediato e asciutto di raccontare la magia e la scoperta dell’impossibile.
Come ogni fiaba, Petite Maman è fatto di case e soglie, luoghi da abitare o disabitati che nascondono fantasmi, porte e sentieri nascosti che conducono altrove nel tempo o nello spazio, e in questa costruzione fantastica c’è dentro il viaggio nei sentimenti e nelle paure non dette di tre donne. Per fare questo Sciamma non ricorre a effetti narrativi o visivi, semplicemente si affida alla forza dell’immagine e quindi dell’immaginazione.
A cosa servono i colpi di scena quando si hanno a disposizione le inquadrature (e in modo particolare le soggettive, che mostrano ciò che il personaggio e lo spettatore vedono all’unisono), quando la posizione della macchina da presa comunica prima e meglio di una parola? Perché usare un trucco artificiale quando con il montaggio si può costruire un “teletrasporto”? La regista utilizza le immagini per raccontare, ma soprattutto per vedere e capire, nella loro immediatezza fulminea, dando un senso alla composizione delle inquadrature, alla logica degli spazi, ma senza mai far sentire il peso della tecnica e della regia, tramuta tutto questo in veicolo di emozione e comunicazione.
Così il rapporto tra una bimba, la mamma e la nonna, diventa un viaggio intimo sul filo del minimalismo ma in cui ogni singolo elemento ha un suo preciso senso e una sua precisa funzione, in cui l’intera costruzione narrativa diventa uno di quei giochi simbolici – e d’altronde, in francese, recitare si dice jouer, giocare – attraverso cui i bambini scoprono il mondo e loro stessi.
Petite maman, con la sua complessità nascosta, è uno di quei film da studiare se si volesse capire, e insegnare, cos’è la regia cinematografica e cosa fa il/la regista. Senza clamore, con tenerezza.
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