Domani vanno in scadenza le rate del debito estero di Evergrande, una delle più grandi società immobiliari cinesi. Il debito, secondo fonti di Pechino, sarebbe tra i 14 e i 19 miliardi di dollari. Una frazione dei 300 miliardi in totale, comunque una cifra molto importante. E’ un passaggio chiave per il conglomerato di Shenzhen, alle prese con una grave crisi di liquidità. Per capire come Evergrande arriva a questo momento e quali potranno essere gli sviluppi della vicenda abbiamo intervistato Francesco Sisci, giornalista, sinologo, già inviato de La Stampa a Pechino.
Cosa potrebbe succedere se l’impegno non verrà onorato del tutto?
Se, come Pechino ha già indicato, le rate non saranno pagate in pieno, si potrebbe assistere al fallimento della società e questo potrebbe gettare un’ombra sulle aziende cinesi quotate all’estero, e anche sui circa 750 miliardi di dollari di bond cinesi venduti all’estero.
Il governo cinese non ha alternative?
È possibile che il governo cinese riconoscerà una percentuale di questo debito, e forse nelle prossime settimane potrebbe anche indicare delle linee guida sui bond di aziende non pubbliche, le cosiddette Soe, le imprese di proprietà dello Stato. Ma certo sarà fondamentale capire quanto riconoscerà per vedere se e quanto i mercati finanziari globali tremeranno per i riflessi della crisi cinese.
Perché le aziende cinesi si sono finanziate all’estero?
Il motivo che ha spinto le aziende cinesi a prendere in prestito soldi dall’estero era doppio. I tassi d’interesse all’estero erano più convenienti. Così potevano, per esempio, prendere in prestito in America al 2% e poi a loro volta prestare in Cina al 10%, guadagnando un bel 8%.
E la seconda ragione?
L’altra ragione era dettata dal fatto che, mentre restituivano il denaro all’estero, alcuni privilegiati magari potevano portare fuori il proprio bottino privato.
A quanto ammonta il mercato dei bond in Cina?
La dimensione del mercato dei bond in Cina è di circa 16 miliardi di dollari, ma questo include un po’ di obbligazioni del governo centrale. Nessuno di questi comprende i prestiti bancari o altri crediti da intermediari finanziari. In teoria una modesta tassa sulle case non potrebbe compensare l’ammanco dei governi locali in arrivo per la mancanza di vendite di nuovi progetti immobiliari. Ma non è così semplice.
Perché?
I governi locali si finanziano quasi totalmente con la vendita di concessioni di sviluppo immobiliare, che contano circa la metà del prezzo di una casa. I governi locali hanno in passato attirato gli immobiliaristi, offrendo loro terreni interessanti, finanziati dalle banche locali. Questo ha creato un circolo virtuoso che ha generato negli ultimi 25 anni, direttamente e indirettamente, la maggior parte della crescita economica nazionale. I privati, che stavano facendo soldi, incerti sugli investimenti in Borsa, spendevano quasi tutti i risparmi nella casa. Il circolo è diventato vizioso quando si è costruito troppo e le case hanno smesso di vendersi.
E oggi?
Oltre l’80% della popolazione urbana possiede almeno una casa. Alcuni ne possiedono più di una. In realtà, quindi, una tassa sulle prime o seconde case farebbe crollare il mercato, colpendo peggio i proprietari di prime case, che hanno nella loro abitazione la maggior parte o tutta la loro ricchezza.
Dove sta il problema?
Il problema non sono tanto i nuovi acquirenti, che sono una piccola minoranza della popolazione, per cui le case sono care da comprare, ma gli attuali proprietari di casa – appunto quell’80% e oltre di cui parlavo prima – e le banche ancora in attesa delle rate del mutuo. I prestiti in case sono una voce dei loans bancari e i prestiti immobiliari in genere sono gran parte del monte dei prestiti totale. Se il valore delle case crolla, il costo del mutuo può diventare maggiore del valore stesso della casa. A quel punto la gente protesta, sentendosi defraudata, e poi forse non paga il mutuo, mandando in tilt il sistema bancario.
Un domino difficile da fermare, non crede?
Sono eventualità, non realtà che si avvereranno meccanicamente. In effetti abbiamo una serie di problemi incastrati l’uno nell’altro: il finanziamento dei governi locali, un driver dello sviluppo economico sostitutivo dell’immobiliare; l’opacità della Borsa cinese, che allontana il popolo degli investitori; la sperequazione, che è a tutti gli effetti una tassa occulta, tra interessi sui depositi e interessi sui prestiti; il consenso della nuova classe media, che ha investito la maggior parte dei risparmi in una casa; la sicurezza del sistema finanziario cinese, a rischio di crollo se chi ha preso i mutui non paga più.
Insomma, si è creata una sorta di bolla ingovernabile, in cui anche il governo fatica a trovare il bandolo della matassa?
No, non è così. È certo una situazione difficile, ma non è la fine del mondo. E in questa situazione difficile da ogni punto di vista, il governo ha pensato almeno di cominciare a sgonfiare la bolla, limitando l’estensione di nuovi crediti agli immobiliaristi, e poi di chiudere dei fori attraverso cui i prestiti non concessi in Cina arrivavano da fuori e poi si consentiva una fuga di capitali. Giusto. Così si pone un primo argine.
E dopo?
Dopo non so cosa il governo vuol fare. Di certo c’è da rimettere in piedi tutto il sistema finanziario e lo Stato deve farsi pagare le tasse, senza è impossibile che la situazione giri. Ma far pagare le tasse significa cambiare il contratto sociale.
In che senso?
Nel 2007 su La Stampa scrivevo che intorno al 2022 sarebbe arrivata una crisi finanziaria che avrebbe portato la necessità di imporre tasse alla classe media, cambiando il contratto sociale. Ci siamo, è questo. Naturalmente in politica non c’è il determinismo. Anziché cambiare il contratto sociale, il governo può, per esempio, aumentare tasse indirette e occulte (aumento dello spread tra depositi e crediti) e chiudere o ridurre i contatti con l’estero, in modo che la Cina viva in un sistema economico parzialmente più separato dal resto del mondo. Questo ritarda la crisi, ma non la evita del tutto, perché comunque la Cina importa moltissimo, per il consumo – dal cibo all’energia – e per le sue esportazioni (materie prime).
A suo avviso cosa sceglierà il governo di Xi Jinping?
Non so cosa il governo vuole fare, ma è possibile che Pechino voglia guadagnare tempo fino al congresso del partito dell’anno prossimo, quando il Politburo potrebbe essere ampiamente rinnovato e Xi Jinping avere ufficialmente un ruolo a vita, magari riesumando la carica di presidente del partito, che era stata di Mao.
(Marco Tedesco)
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