Da quando in Italia c’è un Premier very british come Mario Draghi, se la Reuters scrive, e scrive senza citare fonti con nome e cognome, aggiunge alla sua proverbiale affidabilità un quid di “intrinsichezza” in più con l’entourage dell’ex Presidente della Bce e Governatore della Banca d’Italia. Un “quid” che la rende particolarmente attendibile come fonte vicina al Governo, senza impegnare il Governo.
La notizia trapelata ieri appunto sulla Reuters e ripresa senza filtri da tutte le fonti italiane è che” il Governo italiano e UniCredit si stanno preparando ad annullare i negoziati su Mps dopo che gli sforzi per raggiungere un accordo sul piano di ricapitalizzazione sono falliti”. L’Ansa sintetizza la Reuters spiegando che il Governo avrebbe deciso di non “soddisfare le richieste di Unicredit per un pacchetto di ricapitalizzazione del valore di oltre 7 miliardi di euro in quanto questo renderebbe l’accordo ‘troppo punitivo'” per i contribuenti”.
A parte che i 7 miliardi ricordano sinistramente il volume dei soldi buttati via dallo Stato nel caso Alitalia soltanto fino alla privatizzazione poi fallita, quindi per non parlare degli altri; a parte che i soldi bruciati dal “sistema Italia” sulle rovine del Montepaschi sono già stati di più; a parte ogni altra considerazione sul latte versato, la domanda è: ma se la notizia fosse vera e non rientrasse – come invece probabilmente rientra – nel contrario di quel che afferma, e cioè proprio nella trattativa che si rappresenta come in declino, quali alternative avrebbe il Governo?
La dice chiaro Riccardo Colombani, Segretario generale della First-Cisl, il sindacato che rappresenta assicurativi e bancari sotto l’egida della confederazione di estrazione centrista: “Se non andrà in porto l’operazione tra Unicredit e Mef sul Monte dei Paschi di Siena bisogna tornare al piano industriale che prevede la ricapitalizzazione della banca da parte dello Stato. È chiaro che per continuare a operare la banca va ripatrimonializzata e liberata dagli obblighi che in questi anni hanno finito per comprimere i ricavi e innescato un circolo vizioso con i tagli all’occupazione”.
E infatti: altrimenti che accade? Comunque un disastro in più per il sistema bancario italiano, più velenoso che mai in una fase nella quale si sta cercando di valorizzare al massimo le opportunità di ripresa contenute nel Pnrr. E comunque sarebbe una figuraccia internazionale alla Berlusconi – del genere “Caro Schulze, la segnalerò per un ruolo di kapò” – che proprio Draghi avrebbe tutte le ragioni per allontanare da sé, visto che sedeva lui al vertice della Banca d’Italia quando nel 2007 il Monte dei Paschi acquistò per 10,1 miliardi la Banca Popolare Antoniana Veneta senza che la sua Vigilanza facesse una piega.
Ricordiamoci un attimo la temperie di quei giorni: è vero che l’allora presidente del Monte, Giuseppe Mussari, godeva di una stima generale che i fatti non avevano ancora rivelato quanto infondata fosse; è vero che le protezioni politiche erano fortissime, perché il Monte rappresentava quella banca “organica” alla sinistra italiana che non era stato possibile costruire attorno al tentato asse Unipol-Bnl (l’infausta battuta “Abbiamo una banca” di Piero Fassino era del 31 dicembre 2005). Ma che il boccone veneto fosse enorme per i senesi, era chiaro a tutti.
Ma nulla intervenne a fermare l’autolesionismo, perché con quella mossa il Monte faceva qualcosa di più e di diverso che migliorarsi agli occhi del partito di riferimento, cioè appunto il Pd: si migliorava agli occhi della sua lobby di riferimento, quella dalemiana, la stessa che con Draghi al ministero del Tesoro come Direttore generale aveva architettato e reso possibile quello scempio finanziario che è stato l’Opa sulla Telecom, la scalata da 100 mila miliardi di vecchie lire, 50 miliardi di euro di oggi, lanciata da un imprenditore in buona fede ma certo dalemiano e spericolato come Roberto Colaninno e da una deprimente consorteria di affaristi. Uno scempio che Draghi non contrastò, obbedendo senza batter ciglio al diktat dalemiano.
Dunque tutto si tiene: era un’Italia che puntava a fare affari, e certamente aver tolto la grana di Antonveneta ai suoi “debitori di riferimento” – cioè alle famiglie soprattutto venete che le controllavano per farsi prestare a buone condizioni i soldi – fu una mossa gradita a tanti.
Tornando a oggi, se davvero sfumasse il fidanzamento con Unicredit, che ne sarebbe di quel che resta del Monte? Le banche fallite nell’ultimo decennio – Cassa Marche, Banca Etruria, Carichieti, Cassa di Ferrara e poi Popolare Vincentina e Veneto Banca – sono state tutte rilevate nelle parti sane da qualche istituto più grande; la Popolare di Bari è finita direttamente allo Stato. Come immaginare per il Monte un destino diverso? Altrimenti davvero sarà da chiamare il Pronto soccorso dell’erario pubblico…
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