Negli interstizi dei teaser puntati contro chi s’inoltri per i sentieri d’un tema controverso, pur se marginale (ma a ben guardare marginalità e contrapposizione son curiose compagne), non si potrà che osservare con piacere all’inatteso successo dei Maneskin, sulle vette del mondo discografico.
E se bastasse un disclaimer per quietare reazioni sarebbe questo: l’autore non apprezza la musica dei giovani in questione, pertanto non ne fruisce; l’autore è a conoscenza del fatto che ci sono pacchi di gruppi probabilmente più meritevoli; l’autore è uso vaccinarsi periodicamente con somministrazioni di Zeppelin, Hendrix, Coltrane, Bird e pertanto dichiara di essere in possesso di pass idoneo alla discussione.
Vedere dei ventenni finire da Jimmy Fallon in un programma di punta della programmazione statunitense, vederlo ballare alla loro musica, sapere che apriranno un concerto degli Stones e che, nel corso della loro permanenza, si stanno progettando nuove date oltre i sold out, ecco tutto questo non è ragionevole che provochi invidia, accidia e acrimonia verso il fenomeno in sé. Ma di quale fenomeno stiamo parlando? Musicale?
Nient’affatto e su questo, probabilmente, nasce l’equivoco di fondo sui pro e contro Maneskin, sempre ammesso che si possa essere “contrari” a una proposta musicale, fatto sul quale è lecito sospendere il giudizio.
Il fatto è che intorno al gruppo romano si è acceso una sorta di moltiplicatore keynesiano, un numero che cresce esponenzialmente al di là di ogni previsione e che questo si è innestato nel teorema per cui “ciò che si assume per reale, produce effetti nella realtà”. Insomma, siamo sinceri, non stiamo parlando di quanto canta bene Damiano, di quanto il chitarrismo di Blackmore sia da rimpiangere, di come il rock abiti in altre latitudini, niente affatto. Qui si parla di soldi, investimenti, credibilità internazionale e (auspicabilmente) ritorno in termini di visibilità e attenzione commerciale. Perché i Maneskin più che musica fanno spettacolo e alle regole dello spettacolo bisogna riferirsi.
Quando nei primissimi anni 80 fece capolino Madonna i media non fecero altro che parlare di quanto fosse bruttina, afona e impacciata nella danza. Chi poi si trovò ad assistere ai suoi show (non concerti, show) rimase strabiliato di quanto divertenti fossero, perché lo spettacolo (e negli Usa ancora quello premia) è una macchina complessa, fatta di luci, coreografie, costumi, sceneggiature, costruzione dell’attesa e quando tutto funziona lo spettatore si diverte. Anche il più ombroso e accigliato sostenitore della dodecafonia e dell’avanguardia jazz si troverebbe, suo malgrado, a baloccarsi tra danzatori acrobatici e flash.
I Maneskin hanno saputo cavalcare esattamente questa onda: gente disposta ad investire milioni su milioni e una propensione marginale all’esibizionismo sfacciato e trasgressivo, unito alla capacità di “tenere” da soli un palco suonando. E siccome Machiavelli ogni tanto fa bene a tutti, specie considerato il tipo di operazione “politica” dietro, andrà detto che si diventa “principi” per la concorrenza dei fattori virtù e fortuna e i quattro attenzionatissimi “pischelli” hanno ottimamente miscelato i due elementi. (Stra)vincendo alla faccia di ogni borbottio. Chi pensa che sia un gioco da ragazzi cavalcare la fortuna, fa un errore clamoroso: la dea è “bendata” anche perché disarciona più facilmente di quanto si faccia domare.
Se ogni volta che si fa un investimento profumatissimo su un gruppo si avesse questo risultato, sarebbe troppo facile il mestiere del discografico. Stavolta ha funzionato perché la band si è trovata duttile e robusta contemporaneamente per reggere un urto imprevisto, che solo in modo semplicistico si potrebbe liquidare con un: e che ci vuole?
Tenere un palco suonando ed esibendosi di fronte a decine di migliaia di persone, reggere a pressioni fortissime da qualunque lato, mantenere l’ambiguo crinale tra trasgressione e semplicità non è faccenda comune e, bazzicando un pochino le storie e le biografie del rock, non sorprenderebbe leggere in prospettiva i danni personali e umani che, oggi taciuti, potrebbe star producendo questo spin sul gruppo, cosa che non gli si augura ma che non è inverosimile. Si vedrà.
Resta il fatto che, grazie a loro, l’Italia, dopo decenni, torna ad avere un faro commerciale di livello internazionale e che questo potrebbe tradursi nell’esser considerati di più e meglio nei prodotti musicali (tanti e belli) che abbiamo in casa. Perché sarà facile che il festival di Sanremo prossimo lo guarderanno i nipoti degli emigrati in Argentina, ma anche qualche discografico di major in più; perché con le loro esibizioni hanno smosso un indotto notevole di lavoratori schiacciati dall’ipossia economica dei lockdown.
E come sempre accade, chi vorrà ascoltare Ivo Pogorelic suonare Liszt potrà continuare a farlo e così gli adoratori del trash metal, della trap, dell’indie o dello smooth jazz. Cui prodest, insomma, non essere contenti per quello che sta succedendo ai Maneskin e, con loro, al nostro Paese? Almeno fin qui, che sono arrivati in America restando quello che erano a Sanremo o all’Eurovision.
Poco, pochissimo c’entra che la loro musica piaccia o no; che chiunque di noi conosce qualcuno che sarebbe più meritevole; che ci piacerebbe vedere il nostro trascurato idolo sulle vette del mondo. C’era un bottegaio a Roma, tal Vitali, una trentina d’anni fa, che imprecava contro il successo dei maglioni di Ferré e gli eccessi di Versace, glamour in tutto il mondo. Lui era un sarto creativo migliore e quella notorietà credeva di meritarla più di loro. Poi, con la storia del made in Italy siamo diventati un paese più rispettato e più ricco. Quindi, magari i Maneskin si moltiplicassero per due, tre, quattro! Auguriamocelo di cuore.
Se invece l’invidia si mescola coi capelli grigi, si finisce per esser disprezzati come “boomer” dai giovani e, per i canuti lettori, come “oreste il guastafeste” del più scapigliato Jacovitti.